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Channel: Proverbi napoletani Archives - Vesuvio Live
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“Parlà tosco”: un’antica espressione napoletana che ha due significati

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La lingua napoletana è ricca di proverbi ed espressioni brillanti e spesso molto famose. Ci sono però dei modi di dire che però non hanno avuto la stessa fortuna e sono cadute in disuso o comunque nel dimenticatoio. È questo il caso del concetto di “parlare tosco”.

Tale espressione napoletana è molto antica ma, come detto, poco conosciuta e risulta essere assente anche in diversi repertori napoletani più o meno moderni. Fino agli anni cinquanta del Novecento, però, tale modo di dire era molto in voga presso i cittadini di Napoli ed in particolar modo per coloro i quali abitavano nella parte bassa del capoluogo campano. Tale lemma si prestava ad una duplice interpretazione. Ad aiutarci nella ricostruzione dei significati dell’espressione è il blog di Raffaele Bracale.

Il primo caso nel quale si dice che una persona “parli tosco” si veniva a verificare quando una persona adottava un linguaggio eccessivamente forbito e ricercato al punto tale da risultare ostico alla maggioranza dei suoi interlocutori. Chi, invece di ricorrere al dialetto napoletano, si rifaceva alla lingua nazionale, arricchendo il suo discorso con termini astrusi, rischiava di parlare un linguaggio incomprensibile. A tali personaggi si diceva che “parlassero tosco”.

L’aggettivo “tosco” però non faceva riferimento alla Toscana, la regione che ha dato i natali ai padri della lingua italiana come Dante, Petrarca e Boccaccio, ma si rifaceva al termine “toske” di derivazione albanese che indicava il difficile linguaggio di una popolazione albanese di religione musulmana, residente nell’Albania centrale, al sud del fiume Shkumbin. In una parola chi parlava un italiano troppo forbito veniva etichettato nell’immaginario popolare, come una persona che ricorreva a questo linguaggio al fine di ingannare il prossimo.

La seconda accezione era riferita a chi, sempre con intenti truffaldini, fosse eccessivamente esoso nelle sue richieste di compenso per un lavoro fatto o in corso d’opera. Di costui non si diceva che parlasse tosco poiché era solito adottare un linguaggio di difficile comprensione, arricchito da lemmi e termini ai più sconosciuti, ma perché fosse troppo caro, ai limiti della disonestà, da essere considerato quasi come un ladro, tale che la maggior parte delle persone scoraggiava gli altri ad intraprendere rapporti economici e lavorativi con tali personaggi.

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La Parlesia: il linguaggio segreto dei musicisti napoletani

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La parlesia è un sottodialetto del Napoletano, come una sorta di slang, che è stato inventato verso la fine del Settecento e veniva usato da alcune categorie sociali appartenenti ai ceti più disagiati del tempo come: borseggiatori, donne di malaffare, scaricatori di porto e così via. Col tempo, però, questo sottodialetto venne utilizzato da teatranti e musicisti ed in particolare da quegli artisti appartenenti agli ambienti musicali non colti come i posteggiatori e mestieranti di locanda.

Negli anni Ottanta del Novecento tale linguaggio cifrato venne riproposto nei testi di artisti napoletani del calibro di Pino Daniele, James Senese ed Enzo Avitabile che lo portarono all’attenzione dei mass media e della cultura di massa che s’interessò con sorpresa a questo particolare gergo.

La parlesia non fa ricorso a neologismi, anzi adotta gli stessi termini del dialetto napoletano alterando, però, il significato del singolo lemma a seconda di come questo viene pronunciato e del contesto nel quale si sta portando avanti la conversazione. Le parole pronunciate da questi musicisti erano all’apparenza incomprensibili e senza senso.

Essi molto spesso ricorrevano alla parlesia per estromettere dalla discussione persone poco gradite. Gli artisti, inoltre, ricorrevano a questo gergo per fare commenti sui loro committenti, sui soldi, sulle donne e sui loro affari privati. Per fare un esempio pratico quello che noi chiamiamo comunemente “specchio” per loro era il “tale e quale”, la chitarra veniva chiamata “cummara” e così via.

Questo linguaggio, rimasto segreto fino alla metà dello scorso secolo, ora è presente in alcuni dizionari e vanta traduzioni anche sul web. L’ennesimo tratto distintivo della cultura napoletana che rischiava di restare sconosciuto alle masse è, però, stato riscoperto e riabilitato anche se non in maniera ufficiale.

Fortunatamente il movimento musicale napoletano degli anni Ottanta ne è rimasto colpito, salvaguardandolo anche se in minima parte. Un gesto comunque importante che ha salvato una dall’oblio la parlesia e tutto il microcosmo ad essa collegato.

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‘O frambuasso, un frutto molto amato dai napoletani. Sapete cos’è?

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Da “framboise” a “frambuasso”. L’influenza della Francia sulla lingua napoletana.

I contatti tra Napoli e gli altri popoli europei sono sempre stati molto frequenti, quelli con la Francia meritano una menzione particolare ed affondano le loro radici in epoche lontane. La lingua napoletana ha adottato molte parole dal francese, questo è facilmente riconducibile alla lunga presenza degli Angioini nelle nostre regioni.

In tempi più moderni la cosa divenne particolarmente evidente ad inizio Ottocento quando, durante l’epopea napoleonica, Giuseppe Bonaparte prima e Gioacchino Murat poi si fregiarono del titolo di re di Napoli. Nel corso del Decennio l’influenza francese nel Mezzogiorno d’Italia non si fermò in maniera esclusiva a livello politico ma essa ebbe delle ripercussioni anche sulla lingua che, come detto, aveva già avuto contatti con la lingua dei Lumi.

Oltre alla documentazione ufficiale scritta in francese, furono diverse le parole e i lemmi che furono fatte proprie dal dialetto napoletano ed ancora oggi compaiono nelle discussioni portate avanti in napoletano. Processi come questi sono sempre stati possibili grazie alla grande capacità d’assorbimento e versatilità della società napoletana. Sono esempi di questa situazione termini come “butteglia” e “buatta” che nella loro pronuncia napoletana hanno l’esatto corrispettivo in francese.

Il medesimo caso vale anche per la parola “frambuasso” con la quale si indica il lampone. Tale accezione è sicuramente usata meno nel dialetto corrente rispetto alle altre due già citate, ma anche essa può vantare antiche e nobili origini. Frambuasso è il corrispettivo francese di framboise. Bisogna dire però che nel dialetto napoletano questa parola sta cadendo sempre di più in disuso e si sta tendendo a sostituirla con un’espressione molto più piatta ed italianizzata.

È interessante constatare come una già ricca e stratificata cultura come quella napoletana sia stata capace di trarre nuova linfa da usi e costumi appartenenti ad altri popoli. Ieri come oggi l’inclusione e l’accettazione costituiscono l’asso nella manica e il tratto distintivo della nostra storia.

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‘O nippolo: cos’è e da dove deriva il termine napoletano

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Il termine può trarre in inganno chi non lo conosce, ma “nippolo” non ha niente a che vedere con usi e costumi giapponesi (Nippo, dal VII d.C., è il nome ufficiale del Giappone). Sì, perché “nippolo” non ha niente “a mandorla”, ed è anzi l’ennesima espressione napoletana coniata alla perfezione per dare un senso specifico a qualcosa.

Nippolo, infatti, è un termine del dialetto napoletano che indica le palline di lana o cotone che si formano sugli indumenti infeltriti.

A volte, il nippolo, lo si può trovare anche all’interno dell’ombelico venutosi a formare a causa dello strofinamento della peluria circostante con una maglia a pelle o canottiera.

E il fenomeno della lanugine ombelicale ha da sempre destato interesse e curiosità.

Nell’antichità il fenomeno era già stato studiato: per i Sumeri questa “lana” era una vera e propria divinità, per gli Egizi era un buon segno in vista del raccolto.

Nel 2001 Karl Kruszelnicki dell’Università di Sydney in Australia iniziò addirittura un’indagine per risalire al motivo della lanugine ombelicale, scoprendo che essa consiste principalmente di fibre sciolte provenienti dai vestiti indossati, mischiate a cellule della pelle morte e a peluria del corpo.

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“Acqua ‘e maggio, parole ‘e sagge”: cosa significa?

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La saggezza popolare mostra tutta la sua infinita potenzialità per quanto riguarda i fenomeni naturali. Capita spesso, infatti, che un breve motto, un detto, una credenza tramandata da generazioni possa risultare molto più attendibile delle più sofisticate previsioni meteo. Ad esempio nessuno si aspetta mai che il mese di maggio possa essere caratterizzato da piogge tanto frequenti dal momento che è alle porte dell’estate, eppure è quasi sempre così. Alla fine ci si trova a dar ragione ad un antico detto napoletano che recita “Acqua ‘e maggio, parole ‘e sagge”.

Letteralmente questo proverbio dice che l’acqua di maggio cade con la stessa frequenza con cui arrivano le parole di un uomo saggio. Dobbiamo considerare che nella tradizione contadina, a cui questo detto si riconduce, una persona definita saggia era una in grado di dare sempre consigli e sempre pronta ad aiutare con le sue parole. Questo ci porta ad attribuire anche un secondo significato al motto.

Non si parla solo della frequenza delle piogge, ma della loro utilità. Infatti, le precipitazioni di questo mese possono sembrare una seccatura per tutti quelli che organizzano già gite fuori porta o giornate al mare, ma per la natura sono un toccasana: tantissime primizie estive non arriverebbero mai se non grazie alle piogge di maggio. Quindi, quest’acqua è tanto nutriente quanto lo sono, per lo spirito e la mente, le parole accorte di un saggio: la prima dà vita alla terra ed ai raccolti, le altre sono cibo per lo spirito.

Fonti:
– https://www.terranuova.it/
– http://www.ilserrasanta.it

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Tirabusciò: perché il cavatappi a Napoli si chiama così?

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Napoli – Certi termini napoletani, ad un primo ascolto, potrebbero apparire privi di alcun senso. Perché, ad esempio, chiamare un semplice e comune cavatappi “tirabusciò”? Non è un termine che abbrevia la parola, non è semplice al punto da giustificare un uso popolare diffuso e, soprattutto, non richiama il gesto di aprire una bottiglia come “cavatappi”. Per capire l’origine della parola napoletana dobbiamo ripercorrere la storia della nostra terra.

In particolare, dobbiamo considerare le influenze francesi su Napoli. Non ci riferiamo soltanto alle ingerenze giacobine ed al periodo napoleonico; bisogna ricordare, infatti, che la cucina della corte borbonica e, quindi, dei salotti nobiliari della città subì molto lo stile dei monzù, chef francesi, o comunque educati a tale arte culinaria. È naturale che molti termini usati da questi cuochi siano entrati anche nell’uso popolare e “tirabusciò” è uno di questi.

La parola, infatti, è semplicemente una trasposizione del francese “tirebouchon”, che oltralpe significa proprio cavatappi. Il termine è l’unione di “tirer” (tirare) e “bouchon” (tappo).

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“Dio è lungariéllo, ma nun è scurdariéllo”: quando si usa?

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E’ raro che i napoletani nominino Dio: una forte religiosità ha annullato, nel linguaggio comune, qualunque tipo di bestemmia o blasfemia. Eppure, in casi molto gravi, non si può fare a meno di invocare un aiuto “dall’alto”. Così, può capitare che di fronte ad un’ingiustizia molto forte, un dolore particolarmente insuperabile, un napoletano possa alzare gli occhi al cielo ed esclamare che “Dio è lungariéllo, ma nun è scurdariéllo”.

Questo detto può essere interpretato in vari modi. Letteralmente significa che Dio può avere tempi lunghi per prendere un provvedimento, ma di certo non dimentica di farlo. Il modo più comune in cui viene usato è come una vera e propria maledizione. In questo contesto si tende a rivolgerlo ad una persona che ha commesso un torto grave verso il quale non si può più far nulla. Così si invoca la giustizia divina che, anche se lenta a realizzarsi, arriverà inesorabile ed inevitabile contro il malfattore.

Non sempre, però, un’ingiustizia è provocata da qualcuno: certe volte è solo una questione di sfortuna. In quel caso dire che “Dio è lungariéllo, ma nun è scurdariéllo” non è un anatema, ma una preghiera, una speranza. Qui la giustizia divina non si invoca per punire, ma semplicemente per risolvere il problema o per riportare luce in un momento buio. Anche se lento nella decisione, si spera che il Padre di tutti possa intervenire, alla fine, e non dimenticarsi di un suo figlio nel momento del bisogno.

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‘A mazzamma: che cos’è e perché è diventato un insulto

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È risaputo che la lingua napoletana è ricca di termini ed espressioni veramente poco comuni. La vivacità e la fantasia dei nostri antenati hanno dato vita a terminologie e modi di dire singolari e particolareggiati che sono entrati a far parte del bagaglio culturale e tradizionale, al punto tale che spesso non trovano corrispondenze né negli altri dialetti peninsulari né nella lingua italiana.

Oggi vogliamo richiamare l’attenzione sul termine “mazzamma” col quale si vuole identificare, in senso letterale, il pescato di piccole dimensioni e di scarso valore sia gastronimico-culinario che economico. Tale espressione, appartenente quindi al campo ittico, viene spesso “declinata” anche per apostrofare, in modo negativo e sprezzante, cose considerate avanzi di produzione dunque inutili, e persone identificate come scarto della società.

C’è stato chi ha attribuito a “mazzamma” un’origine dal lemma greco maza che stava ad indicare un cumulo di cose senza alcun valore; altri hanno avanzato ipotesi circa una genesi fantastica tratta dall’idea di un cumulo di legnetti o mazze. L’origine che però pare più accreditata e sensata è quella legata al temine latino massa, da cui dovrebbe derivare anche maceria. È tale espressione ad essere traducibile infatti con termini come “ammasso” o “cumulo”.

L’espressione latina non trova, però, nessuna corrispondenza col greco maza, ma con l’accadico ma’assu nel quale è possibile riscontrare un rimando ad una grande quantità di oggetti.

In un secondo momento, a Napoli, si è associato al termine latino massa, il suffisso amma. Tale commistione ha dato vita alla parola “mazzamma” che ancora oggi conosciamo. Fu in quel preciso momento che il neologismo, coniato all’ombra del Vesuvio, assunse il senso volto alla descrizione di un’accozzaglia indiscriminata, ammucchiata ideologica o concreta di persone e cose che si caratterizzano per una matrice grossolana, volgare e reietta.

Fonti:
– Istituto Linguistico Campano

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Malacarne: la vera origine di questa terribile offesa napoletana

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malacarne significato

Napoli – Nel film “Il Camorrista” compare il personaggio di Don Antonio “‘O Malacarne”, un terribile criminale che controlla il carcere di Poggioreale. Il suo potere cessa quando Don Saverio, detto “‘O Professore” ed alter ego cinematografico di Raffaele Cutolo, lo sfida a duello e conquista con furbizia il controllo della struttura a sue spese. Il nomignolo di “malacarne” non è solo uno dei tanti soprannomi utilizzati nel gergo criminali, ma una delle più gravi offese napoletane.

Dare a qualcuno del “malacarne” equivale a definirlo una persona disonesta, malvagia e capace di qualunque bassezza. L’origine di questo improperio deriva dal campo delle macellerie: la malacarne è, infatti, l’insieme dei tagli più bassi ed economici del banco del macellaio. Un modo dispregiativo, quindi, di paragonare una persona ad un qualcosa di tanto misero e di bassa levatura.

Tuttavia, a nostro avviso, è l’origine del termine potrebbe essere meno legata a questo settore di quanto possa essere evidente. La carne viene spesso nominata nelle offese napoletane e sta a simboleggiare la persona, nel modo più viscerale possibile. Definire qualcuno di mala carne, quindi, sta ad intendere che sia una brutta persona sin dalle sue viscere, come se la sua stessa carne, i suoi muscoli ed il suo sangue siano corrotti ed infettati dalla bassezza morale.

Fonte: Treccani

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“Pare ‘a fraveca ‘e San Pietro”: cosa significa questo antico detto?

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Napoli – I lavori edili, specialmente se per opere pubbliche, possono durare un’infinità: basti pensare alla costruzione della metropolitana a Napoli. In questi casi, un vecchio napoletano appostato, come di consueto, fuori al cantiere potrebbe esclamare che “Pare ‘a fraveca ‘e San Pietro”. Questo antichissimo detto letteralmente significa “Sembrano i lavori di costruzione della Basilica di San Pietro”.

Infatti, in napoletano sappiamo bene che “fraveca” sta ad indicare sia il materiale edile o la sporcizia rilasciata dopo un’opera in muratura, oppure può indicare, in senso lato, i lavori od i cantieri. In questo caso, ovviamente, la versione da utilizzare è quella più generica. Perché, però, viene usato come riferimento per il protrarsi dei cantieri proprio la Basilica di San Pietro a Roma?

Si tratta di una delle più mastodontiche opere della cristianità e, quindi, si potrebbe trattare di un’iperbole per indicare che un simile ritardo potrebbe essere giustificato solo dalla costruzione di un’opera altrettanto importante. Eppure ci potrebbero essere ragioni ben più storiche.

I cantieri per la costruzione di San Pietro, infatti, aprirono il 18 aprile del 1506 sotto Papa Giulio II e venne ultimata nel 1626 durante il pontificato di Papa Urbano VIII: più di un secolo. L’opera fu alquanto travagliata, soprattutto per il denaro necessario ad ultimarla. E’ probabile, quindi, che l’opinione pubblica rimase parecchio scossa da questo ritardo e l’eco di tutto ciò, a Napoli, si trasformò nel detto “Pare ‘a fraveca ‘e San Pietro”.

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“Se fruscia Pintauro…”: quando si usa questo detto napoletano?

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Pasticceria Pintauro

Napoli – Spesso ci troviamo davanti a persone che si vantano di “imprese” incredibilmente semplici o che qualcun altro avrebbe potuto realizzare molto meglio. In questo caso potremmo apostrofare la persona con un antico detto napoletano: “Se fruscia Pintauro d”e sfugliatelle jute acito”.

Chiunque sa qual è la cosa peggiore che possa succedere ad una sfogliatella: essendo ripiene di crema alla ricotta fresca, se fossero acide significherebbero essere del tutto immangiabili, creata con un formaggio andato a male o cucinate giorni prima. Per questo motivo chi si vanta, in napoletano “si fruscia”, di un’opera mal realizzata è paragonabile a Pintauro che si vanta di sfogliatelle andate a male.

Ma perché proprio Pintauro? Dobbiamo sempre tenere a mente che nei proverbi napoletani non è raro trovare un nome proprio: rapportare subito ad una persona il detto lo rende più immediato, così Pintauro è più immediato di un comune “pasticcere”. Oltretutto, si tratta di una delle pasticcerie più antiche di Napoli e, probabilmente, è proprio lì che nacque la prima sfogliatella fatta a Napoli.

Eppure, un simile proverbio non faceva onore a Pintauro: la pasticceria migliore della città veniva accostata a dolci andati a male. Di certo Pasquale Pintauro, patriarca dell’attività, non prese bene questo modo di dire. Per questo motivo nel linguaggio comune il proverbio si trasformò in “Si fruscia Pantusco d”e sfugliatelle jute acito”. Il nome di fantasia Pantusco richiamava soltanto quello di Pintauro e di certo non avrebbe urtato la sensibilità del pasticcere.

Fonte: Raffaele Bracale

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“Mannaggia ‘o suricillo e ‘a pezza ‘nfosa”: cosa vuol dire?

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topo

Napoli – Abbiamo spesso detto che i napoletani tendono a non imprecare. Ogni esclamazione che potrebbe tradursi in una bestemmia viene filtrata da modi di dire appositi. Uno di questi è “Mannaggia ‘o suricillo e ‘a pezza ‘nfosa”. A differenza di altre esclamazioni come “Mannaggia a Bubbà” o “‘o Pataturco” lo sfogo in questione si usa per problemi di poco conto, per situazioni fastidiose ma che potevano andare molto peggio.

L’origine di una simile imprecazione, però, è particolare. Un’analisi superficiale porta ad una traduzione letterale, cioè “mannaggia al topolino ed alla pezza bagnata”. In questo caso il detto si rifarebbe all’usanza di introdurre pezze bagnate fra la porta ed il pavimento per impedire a piccoli roditori di entrare in casa attraverso la fessura. Quindi, si fa riferimento ad un problema di poco conto, un topolino, a cui già è stata trovata la soluzione, la pezza bagnata.

Eppure, il significato potrebbe essere molto meno innocente. Un tempo, infatti, l’imprecazione era “Mannaggia ‘o piripillo e ‘a pippilosa”, dove i due termini sono vezzeggiativi per nominare il pene e la vagina. Evidentemente, nella tradizione un’imprecazione tanto esplicita è stata censurata con “suricillo” e “pezza ‘nfosa”.

In questo caso il detto avrebbe tutto un altro valore: potrebbe riferirsi ad un atto sessuale che non si concretizza, così come un topolino non può entrare in una porta bloccata da una pezza bagnata. Ancora, mentre il “suricillo” rimarrebbe un’allusione al pene, la pezza potrebbe riferirsi al corredo intimo di una giovane moglie: in tal caso, se la pezza è bagnata, significherebbe che la donna è in periodo mestruale e quindi non potrebbe essere disposta ad adempiere ai doveri coniugali.

Fonte: NapoliFlash24h

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‘A legge è fatta p’‘e fesse: cosa significa questo proverbio napoletano

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Giudice SportivoChe l’accezione sia positiva o negativa, c’è un aggettivo usato molto comunemente nei confronti di Napoli e dei napoletani: furbo. La furbizia, che anche dalla Treccani è considerata una “qualità”, è spesso considerata sinonimo di inganno, ossia un mezzo per eludere qualcosa, come la legge, o per raggirare qualcuno.

Questo modo di essere che rappresenta i napoletani, è stato ben descritto anche in alcuni proverbi della tradizione partenopea.

Il più famoso è “‘A legge è fatta p’ ‘e fesse“, “La legge è fatta per i fessi”. Questo modo di dire napoletano significa che, fatta una legge, si trova subito come eluderla. Quindi, la legge è fatta per i fessi, perché chi è furbo riesce ad eluderla. Quindi, i furbi, i “dritti”, si fanno giustizia da soli, con i loro (discutibili) mezzi.

Ma il proverbio non è rivolto solo ai furbi, ma anche ai desti e ai potenti, che dispongono di molte risorse per volgere a loro favore la legge o per farsi valere eludendola abilmente.

E’ ovvio che sia solo un modo dire: la legge è fatta per essere rispettata, sempre.

Fonte: Proverbi napoletani sulla giustizia

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‘A Madonna t’accumpagna: come nasce questa espressione napoletana?

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Napoli è la città che più di tutte sa unire il sacro con il profano e questa duplice concezione di sacralità la ritroviamo anche nell’espressione “‘A Madonna t’accumpagna“, divenuta celebre grazie al Cardinale Crescenzio Sepe che spesso la usa per concludere le sue omelie e soprattutto grazie a Luciano De Crescenzo.

Con questo modo di dire si vuole augurare alle persone care di essere sorvegliate dalla Madonna, un saluto augurale rivolto a chi si allontana per un viaggio o per il lavoro quotidiano. L’origine di questa espressione napoletana viene raccontata in modo dettagliato proprio da Luciano De Crescenzo in “Fosse ‘a Madonna!”.

Nella seconda metà del ‘700 il re Ferdinando IV per contrastare la criminalità e per combattere il buio pesto che c’era per le strade di Napoli di notte, decise di creare un’illuminazione artificiale proprio per osteggiare i banditi. Così si iniziarono ad installare alcuni lampioni nei pressi di Palazzo Reale e nelle strade più importanti della città.

Però questo non risolveva il problema della criminalità nelle altre zone. Così padre Gregorio Maria Rocco presentò al re una proposta: “Maestà, date a me la licenza dell’illuminazione della città. E state tranquillo, non farò spendere alle casse del Regno nemmeno un ducato”. Re Ferdinando gli diede il permesso.

Don Gregorio Maria Rocco prese un dipinto della Madonna trovato nei sotterranei del monastero del Santo Spirito, nella zona di piazza Plebiscito, allora chiamata Largo Palazzo e ne fece fare centinaia di copie a colori. Le fece sistemare in tante edicole votive sparse per Napoli: “O napoletani – disse – la Madonna che sta nella vostra strada è uguale a quella delle altre strade di Napoli. Ora, però, se voi volete veramente bene alla vostra, dovete tenerla sempre illuminata.

Ogni quartiere si impegnò a tenere le lampade a olio accese sistemate ai lati delle Madonne e così si riuscì ad illuminare le strade di Napoli anche di notte. Ogni volta che qualcuno varcava la soglia della propria casa per uscire, le madri o le mogli salutavano i propri uomini con questa frase: Va’, ‘a Madonna t’accumpagna!”.

 

FONTI:

L. De Crescenzo – “Fosse ‘a Madonna!”, 2012

www.bikesharingnapoli.it

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Finire a tarallucci e vino: come nasce questa espressione?

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Le discussioni sono qualcosa di naturale anche nelle migliori amicizie o in famiglia. Una parola fuori posto, un comportamento sbagliato può trasformare i rapporti. Fortunatamente, se c'è l'intelligenza di capire che è solo uno screzio momentaneo e l'affetto per perdonare, tutto si risolve e si finisce "a tarallucci e vino". Questa espressione, meglio di qualunque altra, riesce a definire la quiete che arriva dopo un litigio, quello stato in cui tutti vogliono dimenticare il malumore e ridono e scherzano per andare avanti. I tarallucci, o taralli, tipici della Campania e della Puglia, denotano che il detto abbia origine meridionale, ma ormai è diffusissimo in tutta Italia. Il significato è semplice e trae origine dall'antica tradizione contadina. In genere, quando arrivavano ospiti, sia attesi che inaspettati, il padrone di casa organizzava quello che oggi definiremmo un aperitivo a base di prodotti semplici come i taralli ed un buon bicchiere di vino. Richiama quindi ad un momento di convivialità, di amicizia e di festa, dove non esistono problemi o divergenze. Il detto si è evoluto, soprattutto in ambito giornalistico, assumendo anche un significato negativo. Riguardo ad accordi politici o gravi crisi dire che la cosa è finita a tarallucci e vino significa che è avvenuto un accordo sottobanco, un insabbiamento, un compromesso egoistico, una compravendita di voti. Insomma, da gioviale riconciliazione l'espressione finisce per rappresentare il "magna magna" che corrompe la democrazia e genera sfiducia nelle istituzioni. Fonte: xtraWine

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‘O cerasiello, il peperoncino: perché in napoletano si chiama così

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Il peperoncino rosso (Capsicum annuum) è una pianta annuale, che appartiene alla famiglia delle Solanacee (la stessa di patate, melanzane, pomodori e tabacco). La Capsicum annuum ha avuto origine nel continente americano, e fu portata in Europa da Cristoforo Colombo. Esso ha un fusto eretto, fiori bianchi e frutti dalla forma oblunga, che nella fase della maturazione passano dal verde al giallo fino al rosso acceso. La sua particolarità è la piccantezza al palato, caratteristica che gli viene conferita dalla capsaicina, un alcaloide presente al suo interno. La prima etimologia del termine "peperoncino", viene dal latino, “cĕrăsum”. Successivamente, con i francesi, divenne "cerisé", e durante la dominazione francese dei d’Angiò nel regno di Napoli, si trasformo in “cerasa” (cioè ciliegia). E proprio da quest'ultimo termine, per somiglianza di colore e forma (quando è tondo) alla ciliegia, deriva ‘o cerasiello, il piccante e rosso peperoncino che dà origine al detto “sta ‘ncoppo 'o cerasiello”, “sta sul peperoncino”, un modo di dire utilizzato per deridere chi è saccente e arrogante.

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“È arrivato ‘o Marchese”: perché le mestruazioni sono chiamate (anche) così

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La serie evento L'amica geniale, che ha macinato record di ascolti settimana dopo settimana, ha messo in scena uno spaccato di vita della Napoli del dopoguerra con i suoi usi, costumi e modi di dire. Tra questi vi è un'espressione, forse inusuale oggi, usata dalle ragazze nel raccontare l'arrivo del loro primo ciclo mestruale: il marchese. Le più giovani probabilmente avranno chiesto alle loro mamme o alle loro nonne come mai si dicesse così all'epoca. Anche oggi molte donne usano nomignoli strani quando hanno le mestruazioni, spesso per nascondere agli uomini il loro stato o spesso anche per gioco. Eppure l'origine di questa espressione è molto semplice: i marchesi erano soliti indossare delle palandrane di colore rosso vivo per distinguersi dal popolo e sottolineare il loro rango nobiliare. C'è un rimando, dunque, al colore rosso. Oggi questo modo di dire è abbastanza inusuale, anche se ce ne sono tantissimi per "denominare" le mestruazioni: "ho le mie cose", "sono in quei giorni", "avere le regole", "è arrivata la zia" e tante altre che cambiano anche da regione e regione. E voi che espressione usate?

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 altare sgarrupato nun s’appicciano cannele: il proverbio delle cause perse

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proverbi napoletani - A altare scarrupato nun s'appicciano cannele

proverbi napoletani - A altare scarrupato nun s'appicciano canneleUn miracolo, una grazia, un'intercessione divina. Di certo se siete in una chiesa e state accendendo una candela è per chiedere una di queste cose. Niente di più inutile, però, in alcune circostanze. E' quanto emerge dal significato ultimo di un proverbio napoletano tanto caustico quanto foriero di verità: "Â altare sgarrupato nun s'appicciano cannele", letteralmente "Sull'altare in rovina non si accendono candele". Due i significati metaforici di questo proverbio napoletano: un più generico "Inutile sprecare energie per una causa persa", e un più specifico "A donne anziane non si fanno moine". Due facce della stessa medaglia, comunque. Infatti, diverse ricostruzioni indicherebbero che in un primo momento lo stesso era da intendersi secondo l'ultima versione, ovvero consigliava di lasciar perdere donne vecchie e/o brutte, vista l'inutilità di andare loro dietro, corteggiarle o far loro complimenti, poiché non ci sarebbe  nulla da guadagnarci in un amore di siffatta specie. In pratica questo proverbio napoletano ci ricorda che in chiesa è inutile accendere candele su di un altare malandato, sistemato male, che vuole anche significare che alle donne ormai anziane è inutile fare moine, non ci sarebbe niente da guadagnare. In seguito, poi, per estensione di significato, è passato anche ad intendere che ci sono cause perse in partenza; in quei casi, è inutile perdere tempo con situazioni e persone che non hanno nulla da offrici. Non è dato sapere, come nella maggior parte dei casi, chi sia l'autore di questo antico proverbio napoletano, ma di certo seguire i suoi consigli alle volte non sarebbe una cattiva idea.

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Ambaradan: la parola che ha origine da un orrore fascista

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Ci sono parole, entrate ufficialmente nella lingua italiana, che usiamo quotidianamente senza conoscerne minimamente il significato. Uno di questi complicati termini è "Ambaradan". Sia in lingua napoletana che in italiano questa parola sta ad indicare un'estrema confusione, un guazzabuglio, un disordine eccessivo: una camera disordinata può essere un "ambaradan" di vestiti, fra la folla può succedere un "ambaradan" o si può avere un "ambaradan" in testa se si è molto confusi. Per quanto la parola sia particolarmente strana, quasi un'onomatopea per quanto innaturale, è riconosciuta da tutti i vocabolari italiani e dall'Accademia della Crusca come integrante della nostra lingua. È la stessa Accademia a spiegarne anche la particolare origine. In pochi sanno, infatti, che questo termine deriva da una delle pagine più oscure e cruente della storia italiana: la guerra in Abissinia voluta dal folle imperialismo fascista. Amba Aradam è, infatti, il nome di un altopiano dell'Etiopia. Proprio su questo massiccio, nel 1936, le truppe italiane si scontrarono contro quelle abissine in una cruenta battaglia che vide la vittoria delle camicie nere. Un'assonanza importante che non lascia dubbi, ma cosa collega una battaglia feroce al disordine che oggi conosciamo come "ambaradan"? Prima dello scontro i generali fascisti strinsero alleanze con alcune tribù locali. Nel pieno della battaglia, però, questi africani si schierarono contro gli italiani tornando a combattere per gli abissini: questo generò un caos estremo sul campo, nella mischia gli italiani iniziarono ad uccidere qualunque soldato dal colore della pelle diverso senza più considerare le alleanze. Persino, alcune tribù ritornarono ad aiutare gli italiani quando videro che questi ultimi stavano vincendo. La battaglia fu vinta dalle camicie nere, anche se molti storici ritengono che furono gli alpini, maggiormente addestrati per gli scontri montani, a dare il colpo decisivo all'esercito abissino. Le truppe fasciste utilizzarono gas tossici vietati e seguì una strage fra i civili africani: 20.000 furono i morti fra gli etiopi, sia militari che civili innocenti. Una vera e propria strage compiuta in nome di un fantomatico Impero Italico. La battaglia fu così confusionale e insensata, così cruenta e caotica, che molti militari tornati dal fronte iniziarono ad usarla come esempio di una situazione disordinata: "E' come ad Amba Aradam" dicevano, o semplicemente "è un Amba Aradam". Fatto sta che l'uso continuo ha italianizzato il nome dell'altopiano etiope, rendendolo l'"ambaradam" che conosciamo ed utilizziamo oggi. Fonte: Enciclopedia Treccani; Accademia della Crusca

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Guallera, carcioffola o tamarro: 15 parole napoletane che derivano dall’arabo

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I contatti tra arabi e napoletani rimandano a un periodo storico molto lontano, il IX secolo d.C., durante la campagna di conquista araba in Sicilia. I napoletani chiedono aiuto agli arabi affinché si liberassero dalla presenza dei longobardi, in cambio gli arabi ricevono l’aiuto dei primi per conquistare Messina (842). Quando gli arabi giungono in soccorso dei napoletani ne approfittano per conquistare e razziare diversi territori posti nell'area centro – meridionale dell’Italia. I territori conquistati sono influenzati dalla cultura araba, che fungono da basi per diffonderla nel resto della penisola. Dopo che gli arabi perdono quasi tutti i territori conquistati a scapito dei normanni, la loro cultura viene preservata prima con la monarchia normanna, poi quella sveva. Oggi, portiamo ancora gli strascichi della suindicata cultura, tra le tante cose rientrano alcuni lemmi italiani e napoletani che derivano dall'arabo. Bazzariota (bazaar): venditore ambulante di merci al minuto. Bardascia (bardaǧ): indica una prigioniera. Ccaffè (qahwa): bevanda eccitante. Paposcia (babusc): pantofola vecchia. Dragumanno (targiumān): procacciatore di affari. Gabèlla (qabāla): imposta/tassa. Carcioffola (kharshūf): noto ortaggio dal caratteristico sapore dolce – amaro. Cuttone (quṭun): fibra tessile ricavata dai peli che rivestono i semi della pianta omonima, da cui si ottengono filati e tessuti. Caraffa (garrāfa) : un tipico recipiente panciuto di vetro. Guallera (hadara): rigonfiamento delle parti intime maschili indotto da noia. Scialle (shāl): indumento femminile di lana. Tamarro (tammār): indica una persona, per lo più di periferia, dai modi e dagli aspetti rozzi, volgari e villani. Tummeno (thumn): antica unità di misura. Mammone (maimūn): mostro terrificante Mammalucco (mamlūk): una persona priva di gestualità, cioè non si avverte la sua presenza poiché poco attiva nei rapporti umani. Bibliografia: - A. de Sario, L’influenza della lingua araba in Italia: analisi etimologica di alcuni prestiti commerciali e scientifici, 2017; - M.Perillo, 101 perché sulla storia di Napoli che non puoi non sapere, Roma, New Compton, 2017; - L.Rinaldi, Le parole italiane derivate dall’arabo, Detken e Rocholl, Napoli, 1906; Sitografia: - http://www.treccani.it/vocabolario/carciofo/ - http://www.treccani.it/vocabolario/tamarro/ - http://www.treccani.it/vocabolario/tomolo/ - http://www.treccani.it/vocabolario/mammone3/ - http://www.treccani.it/vocabolario/cotone/ - https://www.garzantilinguistica.it/ricerca/?q=bardassa - http://www.treccani.it/vocabolario/dragomanno/ - http://www.treccani.it/vocabolario/caraffa/ - http://www.treccani.it/vocabolario/caffe/ - http://www.treccani.it/vocabolario/mammalucco/ - http://www.treccani.it/vocabolario/scialle/ - http://www.treccani.it/vocabolario/babbuccia/ - http://www.treccani.it/vocabolario/gabella/ - http://www.treccani.it/vocabolario/tamarro/

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