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Channel: Proverbi napoletani Archives - Vesuvio Live
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Video. “Zompapereta”: l’offesa cult contro il maestro Sperelli. Ecco cosa vuol dire

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Quando Paolo Villaggio-il maestro Sperelli litiga con il bidello (Gigio Morra) in Io speriamo che me la cavo, i suoi alunni gli dicono prontamente: “Qua ci vuole un insulto mortale, ditegli zompapereta”. Ma che vuol dire zompapereta? Quando si usa? E perché?

Zompapereta è una delle offese più gettonate della lingua napoletana, una “mala parola”, una parolaccia che affonda le sue radici nell’antico latino, che si compone di due distinte parole e che in molti hanno tentato di spiegare.

La prima parte è una voce del verbo “zompare”, letteralmente saltare, ma è la seconda parte quella più difficile da decifrare e analizzare. A Napoli tradizionalmente la parola “pereta” viene impiegata per indicare donne volgari, dozzinali, di facili costumi o eccessivamente ricercate. Il termine potrebbe derivare dal latino “peditum” che vuol dire peto, scorreggia, ma ne troviamo tracce anche nella smorfia napoletana che al numero 43 associa “la pereta for’ ô balcone”.

Unendo il “zompa” e la “pereta” si ottiene dunque il “zompapereta”: secondo il “Manuale di napoletanità” di Ateneapoli, la zompapereta è una donna che salta una scoreggia, una sorta di offesa rafforzativa di “pereta”.

Pochi mesi fa il rapper Clementino utilizzò questa “mala parola” contro Nina Moric, colpevole di aver tifato per l’uscita del Napoli dall’Europa: “Ti credevo una persona intelligente, ma a quanto pare non è così. Tu non hai idea di quanto ci schiacciano dalla mattina alla sera , al tg , sui giornali , in tutta Italia , siamo sempre bersagliati , e adesso pure tu ? Non si tratta della partita ” – precisa il rapper in difesa della propria terra – ” ma del porre fine a queste costanti offese contro noi Napoletani … Mi dispiace , ma per me da stasera tu sei una zompapereta”.

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Al Sud si chiama mellone, al Centro-Nord cocomero o anguria: perché?

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In un caldo pomeriggio d’estate non c’è merenda migliore di una grossa fetta di cocomero, magari tenuta al fresco per l’occasione. Dolce, dissetante, facile da mangiare a morsi, per grandi e piccini il frutto pieno di semini è simbolo di vacanza, mare e giornate di relax con famiglia e amici. Eppure, nonostante tutto questo, un’ombra aleggia su tale prelibatezza: le discussioni sul nome. Cocomero, anguria o melone? Cerchiamo di capire perché ci sono almeno tre modi di chiamarlo.

Il termine più vicino al nome botanico è “cocomero”, dal latino scientifico “cucumis citrullus”. Possiamo dire che sia questo il nome canonico del frutto, eppure sono poche le regioni italiane in cui è utilizzato in via esclusiva: praticamente solo in Italia centrale. Già in Toscana, ad esempio, a “cocomero” viene spesso sostituito il termine dialettale “pupone”.

“Anguria”, invece, viene usato prevalentemente nell’Italia settentrionale. La sua origine è da ricercarsi, secondo il Corriere della Sera, nel greco “angurion” (cetriolo) ed il suo utilizzo nella nostra penisola risalirebbe alla dominazione bizantina del VI sec. d.C.. In effetti, il legame fra il frutto ed il cetriolo è costante: nelle stesse regioni dove “anguria” è più utilizzato, il termine “cocomero” indica proprio l’ortaggio. Persino nei paesi anglofoni il cetriolo viene chiamato “cucumber”.

Veniamo, infine, al nostro melone o “mellone”. Come sappiamo, generalmente per melone si indica quello che in botanica viene chiamato “cucumis melo”: il frutto dalla buccia marroncina e la polpa arancione. Nella lingua napoletana i due alimenti vengono considerati due varianti dello stesso frutto: il cocomero viene soprannominato “mellone ‘e acqua”, mentre il melone vero e proprio “mellone ‘e pane”. Alla base dei due appellativi c’è la diversa consistenza della polpa dei due frutti.

La definizione napoletana potrebbe sembrare la più fantasiosa fra le tre analizzate e la più lontana dalla realtà. Eppure c’è un particolare importante: i popoli di lingua inglese chiamano il cocomero “watermelon”, letteralmente “melone d’acqua”.

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Bella comme ‘o riavulo ‘e Margellina: perché si dice così? Ecco la leggenda

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Nella Chiesa di Santa Maria del Parto a Mergellina vi è un singolare dipinto del 1542 «San Michele che scaccia il demonio», conosciuto popolarmente come “Il diavolo di Mergellina”.

Realizzato dall’artista Leonardo Grazia da Pistoia, il quadro non solo è ricco di significati metaforici ma si ricollega anche ad una nota leggenda narrata, in due versioni differenti, da Benedetto Croce e Matilde Serao.

Come anche il nome del dipinto suggerisce, il protagonista indiscusso della composizione è San Michele Arcangelo che, dall’alto dei cieli, è intento a trapassare la gola di un demonio, ovvero il diavolo di Mergellina personificato da una seducente donna seminuda con una folta chioma ramata e con tratti tipici d’un serpente.

Entrando nel merito, esistono, come abbiamo detto, non una ma ben due storie popolari che si ricollegano al quadro.

La prima leggenda, descritta nel celebre volume di Benedetto CroceStorie e leggende napoletane”, narra la storia di Vittoria d’Avalois, nobildonna napoletana, la quale invaghitasi di un giovane prete, Diomede Carafa, tentò con ogni arma di seduzione in suo possesso di sviarlo dalla promessa religiosa fatta a Dio.

Ecco spiegato anche il detto antico popolare «Si’ bella e ‘nfama comme o’ riavulo ‘e Margellina», pronunciato dagli uomini nei confronti di quelle donne “pericolose” che utilizzano la loro bellezza per ammaliarli e rapir loro cuore ed anima.

La seconda leggenda, narrata da Matilde Serao in “Leggende nepoletane“, racconta d’una affascinante fanciulla aristocratica tra le più ricercate nei prestigiosi salotti del cinquecento, di nome Isabella. Fortemente desiderata dall’élite maschile napoletana, era solita stregare con il suo fascino ogni individuo di sesso maschile che incrociava lungo il suo percorso, senza mai concedersi a nessuno.

Tra gli sfortunati caduti nella sua trappola d’amore vi fu anche Don Diomede Carafa, Vescovo di Ariano Irpino, uomo di straordinaria bellezza appartenente ad una delle famiglie più prestigiose della città partenopea. L’uomo per perseverare nella sua posizione ecclesiastica, rifiutò ogni contatto con la giovane nonostante ne fosse profondamente attratto. Proprio quando pensò di essere uscito indenne dalla fattura d’amore, ricevette una sua lettera nella quale ella si dichiarava innamorata e disposta ad iniziare una relazione amorosa.

È risaputo che l’unico modo per resistere alle tentazioni è cedervi, di fatti Diomede accettò la richiesta d’amore della fanciulla. La passione tra i due durò fino al momento in cui la donna non si rivelò interessata ad un altro uomo, miglior amico del vescovo, Giovanni Verrusio.

Per sopportare il senso di perdita e per esorcizzare il dolore, Diomede entrò in contatto con un noto pittore di Pistoia, commissionandogli il quadro che ogni giorno, nella Chiesa di Santa Maria del Parto a Mergellina posta al di sopra del ristorante Ciro, possiamo ammirare: San Michele Arcangelo che scaccia un demonio con il volto della celebre tentatrice.

Quasi come un urlo di gioia, il dipinto è accompagnato da un’interessante iscrizioneFecit Victoriam Alleluia 1542 Carafa”.

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Uosemo: ecco cosa significa davvero e come è nata questa parola

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La lingua napoletana è l’insieme armonioso di tutte le culture, i popoli ed i regni che si sono succeduti nella nostra città. Spesso capita, quindi, che parole antichissime siano arrivate, attraverso i secoli, fino a noi restando vive nella nostra lingua mentre altrove sono state dimenticate. Il termine “Uosemo” è uno di questi “fossili viventi” della lingua.

Come spiega il professor Luigi Casale nella sua analisi, deriva, infatti, direttamente dal greco “osmòs”, che significa “odore”, o, più precisamente, dal verbo “osmao”, “odorare, fiutare”. Se la parola in sé ha subito dei leggeri cambi nella tradizione volgare, il suo significato è rimasto pressoché invariato: odore o fiuto.

Tuttavia, la sua interpretazione cambia a seconda di come viene usato, del contesto o della frase. Possiamo dire che, in generale, l’“uosemo” è un odore sgradevole, magari non molto forte. “Sentire l’uosemo” può significare, invece, subodorare qualcosa di negativo o di nascosto, come dire in italiano “questa cosa mi puzza”. “E’ gghiut’ ‘a uosemo” si dice quando qualcuno sceglie in base all’istinto, l’italiano “andare a naso”.

Sempre il prof. Casale traduce “uosemo” non propriamente come “odore”, ma come “olfatto canino”, rendendolo molto più specifico. In base alle interpretazioni elencate in precedenza questa versione sembra calzare meglio: il fiuto sviluppato dei cani ben si addice a situazioni in cui si percepisce qualcosa di nascosto o si segue un impulso, una sensazione.

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Fittiare: ecco cosa significa e come è nato questo verbo napoletano

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Per comprendere appieno il significato del termine “fittiare” dobbiamo andare, con l’immaginazione o con i ricordi, indietro di qualche decennio. Immaginiamo un giovane che, la domenica mattina, resta appostato in piazza con un nugolo di amici. Finalmente arriva lei, la ragazza dei suoi sogni, uscita con la famiglia per andare a messa: ha indossato il vestito delle feste, acconciato i capelli e persino un po’ di trucco.

Lui la osserva, la desidera: è rimasto lì fermo solo per aspettare quel momento, per lanciarle quelle occhiate invasive per tutto il tragitto. Quegli sguardi bramosi, quell’attenzione quasi molesta nella lingua napoletana è racchiusa nel verbo “fittiare”. Ovviamente, il corteggiamento è il momento in cui il termine ha maggior valore, ma ci sono tantissime altre occasioni: si può “fittiare” un vestito costoso aspettando i saldi, una frolla calda quando si è a dieta o una bella macchina.

In via generale possiamo dire, quindi, che il significato corretto potrebbe essere “guardare con desiderio qualcosa o qualcuno che non si può avere”. Oggi, però, il verbo è desueto, almeno in questa accezione. Spesso “fittiare” viene usato semplicemente per indicare due persone che si stuzzicano o si corteggiano, che si “fitteano”.

Sull’origine del termine la spiegazione più attendibile è quella dello studioso della lingua napoletana Raffaele Bracale. Per lui deriva dal verbo latino “figere”, che tradotto significa “colpire da lontano”. Con un po’ di poesia ed immaginazione gli sguardi carichi di desiderio possono essere rapportati a frecce che colpiscono anche a distanza, spesso infastidendo. Sempre basandosi sulla molestia insita nel “fittiare”, Bracale ricorda anche la parola napoletana “fettíglie” usata, pur raramente, ancora oggi per indicare noie, molestie e consimili.

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Stare “cu ‘e pacche dinto’a ll’acqua”: ecco perché è sinonimo di povertà

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Nella stagione estiva, con un clima torrido, risulta difficile pensare che stare “cu ‘e pacche dinto’a ll’acqua” possa avere un significato negativo. Del resto, quest’antichissima espressione napoletana indica letteralmente lo stare immerso in acqua fin sopra le natiche, in napoletano “pacche”. Eppure, nella nostra lingua qualcuno sta “cu ‘e pacche dinto’a ll’acqua” quando versa in una condizione di miseria assoluta, quando ha toccato il fondo.

In realtà, originariamente l’espressione non doveva significare questo, bensì l’essere stremati o oberati di lavoro. Ormai quest’accezione del detto è del tutto dimenticata. In ogni caso, secondo lo studioso Raffaele Bracale, l’origine di tutto va ricercata nelle abitudini e nei tradizionali movimenti dei pescatori napoletani. In particolar modo bisogna ricordare la pesca con la sciaveca, una grossa rete calata in mare.

Una volta pieno, questo arnese veniva tirato a riva dai pescatori con un enorme sforzo. Per far questo gli uomini dovevano calarsi in mare con l’acqua ben più sopra delle ginocchia, insomma dovevano mettersi “cu ‘e pacche dinto’a ll’acqua”. Il modo di dire napoletano vorrebbe significare, quindi, che una persona è stanca tanto quanto quei pescatori che a fatica cercavano di portare a riva la grossa rete. Come si è arrivati allora ad indicare, in questo modo, la povertà?

A Napoli c’è sempre stata la convinzione che i pescatori fossero fra i lavoratori più poveri, al punto che l’antica arte della pesca veniva considerata l’ultima spiaggia per chi aveva perso tutto. Questa è, senza ombra di dubbio, un’esagerazione: non è mai stata un’attività particolarmente redditizia, ma tantissime famiglie hanno vissuto più che dignitosamente con simili proventi. Questa convinzione, comunque, ha infettato anche il detto in questione.

Oggi non viene più considerata la fatica dei pescatori, ma soltanto la loro presunta miseria. Così, ritrovarsi come loro “cu ‘e pacche dinto’a ll’acqua” è sinonimo di condividere la loro disperata ed esasperata povertà.

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Mesale: perché la tovaglia in napoletano si chiama così?

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Esistono parole nella lingua napoletana talmente radicate nella nostra quotidianità da sostituirsi completamente alla controparte italiana. Il termine “mesale”, ad esempio, è utilizzato molto più frequentemente dell’italiano “tovaglia”, al punto che molti non sospettano nemmeno che si tratti di una parola presente unicamente nel vocabolario napoletano. Non c’è bisogno di spiegare cosa significhi: tutti l’utilizziamo per apparecchiare la tavola.

Riguardo l’etimologia, tutti gli studi sul termine sono concordi a farlo derivare dal latino “mensa”, che tradotto significa letteralmente “tavolo da pranzo”. “Mensale”, poi divenuto “mesale” in napoletano, sarebbe quindi qualcosa di “relativo al tavolo da pranzo”. Ancora una volta, quindi, abbiamo la prova di come la nostra lingua abbia conservato termini millenari.

Tuttavia, secondo alcuni studiosi il passaggio da “mensa” a “mesale” non sarebbe stato immediato, ma sarebbe stato prima mediato dalla lingua spagnola. Infatti gli iberici hanno ereditato direttamente il termine latino chiamando il tavolo da pranzo “mesa”: è quindi probabile che il termine “mesale” sia nato nel corso della loro dominazione, così come tante altre parole che usiamo quotidianamente a Napoli.

Infine, come ricorda anche Napolinlove, bisogna far notare che in provincia di Caserta il tavolo viene chiamato anche “mesa”, tutt’oggi. Non è chiaro se questo derivi sempre dalla dominazione spagnola o se i casertani abbiano tramandato direttamente il termine dal latino.

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‘O petrusino: perché in napoletano il prezzemolo si chiama così

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‘O petrusino, dal latino petroselinum, è il prezzemolo, nota erba aromatica presente nella maggior parte delle salse e delle minestre della cucina napoletana.

Il prezzemolo, con la sua “traduzione” napoletana, è da sempre oggetto anche di proverbi e modi di dire, che arricchiscono ulteriormente il già florido folklore partenopeo.

Tanti certamente conosceranno il detto “petrusina ogni mmenesta”, riferito a chi si infila in ogni discussione anche se non gli riguarda. Anche in italiano , infatti, “prezzemolina” è una persona presente ovunque ma con l’accezione negativa di “invadente”.

Ma ce ne sono altri ancora più significativi per la tradizione popolare, anche se forse meno conosciuti, come i seguenti:

– Chello È bbello ‘o petrusino va ‘a gatta e nce piscia a coppa…;
– Chella mmuglierema è bbella, ce vuó tu ca ‘a zennije.

Il primo, letteralmente, vuol dire “il prezzemolo è bello, poi la gatta vi minge su”, espressione da intendersi in senso antifrastico: il prezzemolo non solo non è rigoglioso, poi la gatta vi minge anche sopra. Questo è il commento di chi si trova in una situazione precaria e non solo non riceve aiuto per migliorarla, ma si imbatte in chi la peggiora ulteriormente.

Il secondo è ugualmente una riflessione amara, del tipo: “mia moglie è bella, e non è un fior di virtù, manca solo che tu le faccia dei cenni per indurla e sollecitarla al tradimento!”.

E il gioco di parole tra l’italiano e il dialetto lo ritroviamo anche nella vita di Joe Petrosino, agente di polizia italiano naturalizzato americano che visse nell’800 e che veniva deriso dai suoi connazionali per il suo cognome, che si avvicina molto alla versione dialettale della parola prezzemolo di alcuni gerghi meridionali: “Con Lu Petrosino la polizia americana diventerà più saporita ma resterà indigesta”, dicevano.

Petrosino, inoltre, è anche un comune siciliano in provincia di Trapani, di circa 8mila abitanti.

Come potrete notare, quindi, prezzemolo è un termine molto utilizzato non solo nel dialetto napoletano ma anche in altri dialetti meridionali.

Vi lasciamo con la traduzione di prezzemolo nei dialetti del Sud Italia:

Napoletano: petrusino

Sicilianopirrusinu

Pugliesepetrusinu

Sardopedrusèmi

Calabresepetrusinu

Fonti: dialettando.com; wikiquote.org.

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“L’asteco chiove e ‘a fenesta scorre”: cosa significa e come nasce

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finestraI proverbi napoletani o i modi di dire, si sa, sono spesso coloriti e crudi, sarcasticamente arguti e densi di fantasia popolare, che caratterizza le loro metafore. Ma a volte, possono anche essere enigmatici. Non subito comprensibili a prima lettura o a primo orecchio; spesso, bisogna investigare un po’ prima di capire quale significato si nasconde dietro il simbolismo verbale, oppure restare qualche minuto a riflettere.

Può capitare, ad esempio, di ascoltare per bocca di una persona anziana le parole: “L’asteco chiove e ‘a fenesta scorre”. Accompagnate, probabilmente, da un viso rassegnato, lontano dall’essere gioviale.

Letteralmente, questo modo di dire si può tradurre così: “Il tetto perde acqua e dalla finestra entra acqua”. Simbolicamente, si riferisce alla contemporaneità di diverse avversità, come a dire non si tratta di un solo problema, ma ne nascono su tutti i fronti.

Dal tetto piove e dalla finestra pure: i guai sono arrivati tutti assieme.

Di conseguenza, essendo il popolo napoletano superstizioso, vuole anche significare che in quel preciso momento della vita, si è particolarmente soggetti alla ièlla, ossia alla sfortuna.

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Mannaggia ‘a marina! Un’imprecazione popolare: ma da dove deriva?

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marina
Quando si prova disappunto per qualche avvenimento oppure dispiacere circa qualcosa che è accaduto nella nostra vita o che comunque richiama il nostro interesse, è comune esclamare: “Mannaggia ‘a marina!”.

Ma da cosa deriva quest’esclamazione? Perché si rievoca la marina?

Iniziamo col sottolineare che la parola mannaggia è una contrazione del napoletano popolare della frase “male nn’aggia”, come dire: ne ricavi male, ne abbia sventura ed è usualmente adoperata per introdurre un’imprecazione generica, che in questo caso ha a che fare con la marina.

La locuzione Mannaggia ‘a marina nacque nel 1860, per bocca di Francesco II di Borbone, il quale imprecò contro la marina del Regno, quando seppe dello sbarco di Garibaldi e dei Mille sulle coste siciliane.

Se è vero da un lato, che la flotta del Regno delle Due Sicilie era il fiore all’occhiello dei Borbone e terza in europa dopo la marina inglese e quella spagnola, è anche vero che Francesco era latentemente adirato con gli uomini di mare del Regno, i quali, questa volta affermarono le colpe di pesante inerzia e inaccettabile slealtà.

Si racconta che a corte, il regnante urlò tale imprecazione appena udita la notizia dello sbarco, imprecando contro la propria marina, orgoglio del Regno e di suo padre Ferdinando II, il quale l’aveva allestita con gran cura.

In effetti la Marina, che già aveva dato segni di scarsa applicazione, fin dallo sbarco a Marsala, non riuscì, in seguito, ad intercettare nessuno dei 21 carichi in partenza da Genova e Livorno, che giungevano a supportare l’esercito garibaldino con armi e rinforzi.

Il resto della storia la conosciamo tutti, se non nello specifico e nei fatti reali, almeno in base alle nozioni dei libri di storia e dei loro racconti. Tuttavia, è sempre bene approfondire le conoscenze che riguardano la nostra terra e la nostra cultura, anziché nutrirci di quelle informazioni impacchettate ad hoc per la divulgazione di massa….Mannaggia ‘a marina!

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“Se so’ rotte ‘e giarretelle”: perché si dice così e da dove deriva?

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cocci
E’ consueto a Napoli usare l’ espressione dialettica “se so’ rotte ‘e giarretelle”, oppure “Rumpimmo ‘e giarretelle”. Questa locuzione, popolarmente conosciuta, indica la rottura di un’amicizia, di un legame intimo e affettivo. Ma qual è la metafora che lega la rottura relazionale alle giarettelle?

Letteralmente Se so’ rotte ‘e giarretelle significa “si sono infrante le chicchere”, ossia si sono rotte le piccole brocche, quelle normalmente adoperate, un tempo, nelle case napoletane. Giarretella è un sostantivo femminile singolare che deriva da Giarra (con etimo dall’arabo ğarra, passato nello spagnolo e provenzale jarra e nel francese jarre), la quale, solitamente di terracotta o vetro, veniva usata per la conservazione del vino e di altre bevande.

Pertanto, la giarretella indica una piccola brocca, giara o chicchera, che alla stregua della prima era fatta con materiali poveri (vetro, terracotta e simili), ma che, tuttavia, veniva adoperata per altri fini: era solito, infatti, servire in questi recipienti bevande agli amici o ai familiari. E non solo bevande, anche alcuni dolci, come il gelato, venivano messi nelle giarretelle. Con gli amici o i parenti prossimi non vi era la necessità di presentare il servizio buono, come quello di cristallo o l’argenteria, ammesso che si possedessero. Oggetti umili potevano tranquillamente essere adoperati grazie al legame intimo e confidenziale che, nel tempo, si era instaurato.

Da qui l’usanza di usare metaforicamente la rottura della giarretella per indicare la rottura dell’amicizia. L’oggetto in questione è divenuto simbolo del legame. Da sempre, in effetti, la creatività popolare ha elaborato metafore e arrangiamenti linguistici che nascondono reconditi significati, rimandando a cultura, tradizione e modi di fare, peculiari della nostra storia.

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A cuoppo cupo poco pepe cape: cosa significa questo scioglilingua?

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La lingua napoletana ha una sonorità tutta sua, una musicalità intrinseca che risuona in ogni singola parola. “A cuoppo cupo poco pepe cape” è un esempio estremo di questa particolarità. Si tratta di un vero e proprio scioglilingua: basti pensare che la formula estesa recita “A cuoppo cupo poco pepe cape e poco pepe cape in cuoppo cupo”. Sfidiamo anche il più grande conoscitore della lingua a recitarlo ad alta voce tutto d’un fiato senza sbagliarsi.

Sembrerebbe, quindi, il corrispettivo napoletano di un semplice “sotto la panca la capra campa”, ma, in questo caso, non si tratta soltanto di un esercizio per la lingua. “A cuoppo cupo poco pepe cape” ha un significato ben preciso ed, anzi, spesso viene usato anche nel linguaggio quotidiano.

Letteralmente si può tradurre con “in un cartoccio stretto può entrare poco pepe”. Ovviamente, per “cuoppo” si intende il classico involto di carta ricolmo di frittura, mentre “cupo” spesso viene usato in napoletano per indicare qualcosa di stretto: basti pensare ai tanti vicoli denominati “via cupa…”.

In senso figurato è, quindi, una metafora e viene usata per apostrofare chi proprio non capisce qualcosa o, ancor peggio, si ostina a non capire. Un significato molto simile a “A lava’ ‘a capa ‘o ciuccio se perde l’acqua e ‘o sapone”. Insomma, così come è inutile aggiungere troppo pepe per insaporire un cuoppo troppo stretto, così è una perdita di tempo cercare di insegnare qualcosa a qualcuno “stretto” mentalmente o intellettivamente.

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‘O cazzimbocchio, Napoli ne è piena: sapete perché si chiama così?

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Napoli è piena di simpatici modi di dire e di espressioni curiose che la rendono ancora più particolare. E’ questa una delle versioni più belle della nostra città e della nostra cultura, perché c’è sempre qualcosa da scoprire. Oggi, ad esempio, vi parliamo del “cazzimbocchio“: avrete sentito spesso questo termine, e Napoli ne è piena, ma sapete di cosa si tratta?

Il cazzimbocchio è un blocchetto di porfido, a forma di piramide tronca, usato per la pavimentazione delle strade e più conosciuto come ‘sampietrino’. Qualcuno ne individua l’origine etimologica nel nome di un ciottolo tedesco di forma semisferica, il ‘katzenkopf ‘ (testa di gatto).

In realtà, il cazzimbocchio, non ha nulla a che vedere con il “katzenkopf“, visto che hanno una forma completamente diversa. La versione “napoletana”, infatti, ha la forma di tronco di piramide con base e vertice quadrati, il che consente ai lastricatori di infiggere tali manufatti su di un letto di sabbia e terriccio, seguendo esattamente l’andamento curvato a botte del piano stradale, facendo accostare i lati delle basi nei cui interstizi vien fatta colare della pece liquida per assicurare tenuta ed impermeabilità alla strada lastricata. Il ciottolo tedesco, invece, è tutt’altra cosa.

Le due versioni, inoltre, non sono comparabili perché, a parte una somiglianza nel suono, tra cazzimbocchio e katzenkopf non sono documentabili specifici passaggi linguistici. La voce originaria fu cazzibocchio, poi a mano a mano trasformatasi per migliorarne la fonetica in cazzimbocchio.

In tutte le forme napoletane è riconoscibile il richiamo osceno, un po’ (anche se in maniera piuttosto forzata) per il riferimento alla forma di un fallo, un po’, soprattutto, perché nel parlato popolare, quando di un oggetto non si conosce il nome, si utilizza genericamente quello di “cazzo“, e potrebbe essere successo lo stesso tra i lastricatori.

Fonti: Blog Raffaele Bracale

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‘A punessa: perché in Napoletano “puntina” si dice così?

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La puntina da disegno, in Campania, è notoriamente conosciuta come “punessa”. Fuori da questa regione, però, salve alcune rare eccezioni, questo termine è completamente sconosciuto.

Tale voce pare abbia fatto la sua prima comparsa su un vocabolario, nel 1956, nel Dizionario dialettale napoletano che la identifica come: “sostantivo femminile col significato di puntina da disegno”. Nell’edizione del 1968 si fa risalire l’etimologia della parola al vocabolo francese “punaise”, che vuole dire cimice.

L’associazione è dettata dal gesto che si fa per utilizzare la puntina, che viene schiacciata proprio come una cimice per essere conficcata nel legno. A sua volta il termine francese deriverebbe dall’espressione latina putire che tradotto letteralmente significa “puzzare”.

Anche qui il collegamento alla cimice ed al suo puzzo è evidente. L’attribuzione di questo nome alla puntina da disegno è fatta per una sorta di estensione analogica. Il piccolo chiodo dalla testa piatta e tondeggiante ricorda proprio la forma dell’animale.

Il termine “punessa” è noto anche in Puglia ed in particolare nella zona del nord-barese. Il confine settentrionale della parola pare essere invece la Ciociaria, che presenta alcune aree dove si associa la puntina da disegno alla “punessa”. Nel resto d’Italia invece il lemma è totalmente sconosciuto. Uniche eccezioni a questa uniformità si registrano a Roma e nella Toscana centrale dove, però, la puntina viene chiamata cimice.

Bisogna precisare, però, che specialmente in Toscana solo gli adulti ricordano che da bambini andavano in cartoleria a “comprare le cimici”. I giovani d’oggi invece non sono affatto a conoscenza di questa terminologia e chiamano lo strumento da disegno col suo nome più comune, ovvero puntina.

È evidente che il collegamento tra la punessa, la puntina e la cimice è unicamente riconducibile al termine francese punaise che si è ampiamente diffuso nel nostro paese. Si pensa che il vocabolo abbia mosso i primi passi nella penisola italiana, nel XIX secolo, a partire dal Piemonte e che l’ambito di diffusione sia stato quello tecnico-militare.

In un secondo momento la parola avrebbe viaggiato attraverso le altre regioni grazie all’esercito, arrivando prima a Napoli e poi altrove. Nel capoluogo partenopeo si sarebbe subito verificato l’adattamento a “punessa”. Solo dopo l’Unità d’Italia ci sarebbe stata la propagazione del termine, ma dalla Toscana andando verso nord sarebbe poi sopravvissuta l’espressione “cimice”, mentre a Napoli e in alcune zone del Mezzogiorno è rimasto, invece, quel “punessa” molto più vicino all’originale francese punaise.

Dal 1956 ad oggi “punessa” sopravvive fiero nel dialetto napoletano che da sempre è ricco di termini unici che vanno conosciuti e ricordati poiché fanno parte della nostra tradizione e del nostro bagaglio storico-culturale.

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Impariamo il Napoletano. ‘A puteca: cosa significa e perché si dice così?

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putecaTante sono le parole napoletane che usiamo nella vita di tutti i giorni, però non sempre ci soffermiamo sulla loro origine che spesso è molto antica e risale ai tempi antichi. È il caso della parola “puteca” (putéca), che in italiano si traduce “bottega”, “negozio”, indicando nell’uso comune la classica salumeria, ma che spesso si allarga a un significato più generico di un’attività commerciale.

Secondo uno studio del professore Luigi Casale, il termine deriva dal latino apotheca, che a sua volta deriverebbe dal greco apothéke. Il verbo di origine è composto da apò + tithemi che significa “porre da parte”, pensiamo per esempio ai termini italiani biblioteca, discoteca, enoteca dove il suffisso “-teca” indicava la conservazione e la custodia di qualcosa. Ecco che la “putèca” indica un luogo dove si custodisce qualcosa. Come vediamo la variazione del significato del termine dall’origine ad oggi è impercettibile.

Legato alla “puteca” è la figura del “putecaro”, ovvero il bottegaio, che spesso diventava una figura familiare, che vedevi ogni giorno per comprare gli alimenti giornalieri indispensabili. Secondo un rito antico il “putecaro” conferiva a Natale un “canisto”, cioè un cesto pieno di cibo versando pochi soldi ogni settimana per tutto l’anno. Sembra che questa usanza sia ancora diffusa in alcuni quartieri o alcuni paesi. Molto diffuso è anche il diminutivo “putechella” che indica il “negozietto”.

Il termine “puteca” è anche utilizzato nell’espressione “fare casa ‘e puteca” , la quale indica un unico ambiente dove vivere e lavorare; è legata ad un periodo storico, quello della dominazione spagnola, durante il quale era vietato costruire all’esterno della cinta urbana e quindi i napoletani utilizzavano qualsiasi locale per abitare, anche i negozi, le “puteche”, dove non smettevano comunque di essere esercizi commerciali.

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Perché in napoletano “zucca” si dice “cucozza”?

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È sempre interessante indagare le varie forme, espressioni e sfaccettature del dialetto napoletano, che rappresenta una delle caratteristiche più peculiari del popolo partenopeo. Oggi vi parliamo di un alimento, la zucca, regina di tante ricette che finiscono sulle nostre tavole.

In napoletano zucca si dice “cucozza“, dal latino “cucutia”, che vuol dire appunto “zucca”. Non si sa molto altro sull’etimologia della parola, ma la “cucozza” è entrata presto anche nella tradizione dei modi di dire napoletani.

Famosa, infatti, è l’espressione tutto il cucuzzaro”, pronunciata anche dal principe della risata Totò nel film “Totò, Fabrizi e i giovani d’oggi” (1960), che pur non essendo propria della Lingua Napoletana (appartiene e viene usata principalmente nel sud e nel centro Italia), è molto conosciuta anche dalle nostre parti.

Molte, inoltre, sono le ricette napoletane che si avvalgono della cucozza per piatti prelibati: tra questi pasta e cucozza e le trofie con cocozza e salsicce. 

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Chiavica: perché si dice e cosa significa davvero questa offesa napoletana?

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Nella lingua napoletana ci sono innumerevoli modi per offendere o prendere in giro qualcuno: alcuni sono più blandi e scherzosi, altri ben più gravi. Dare della “chiavica” a qualcuno è una delle peggiori offese che si possano dire. Infatti parliamo di una parola che viene usata solo nei casi più gravi.

Così viene apostrofato, prevalentemente, chi ha dato prova di bassezza, chi ha commesso un torto grave ed ingiusto o, in via più generale, ha dato prova di essere una pessima persona. Poche parole napoletane esprimono con altrettanta forza un tale disgusto.

“Chiavica” può essere riferito anche ad oggetti o senzazioni, non solo a persone. In questo caso può avere tantissime varianti diverse: un lavoro o un progetto può venire “‘na chiavica”; un caffè all’estero può essere una vera “chiavica” e chi si sente una “chiavica” probabilmente è influenzato. Insomma, il significato è evidente anche in questi casi, ma cosa significa davvero questa parola?

La “chiavica” è letteralmente uno scolo che raccoglie l’acqua piovana. In genere queste zone erano ricettacoli di piccoli e grandi roditori, schifezze di ogni tipo colate dalle strade ed innumerevoli tipi di batteri. Non stupisce che definire qualcuno così sia tanto grave, conoscendo il vero significato. Resta da capire perché in napoletano si usi questo termine.

Etimologicamente deriva direttamente dal latino “cloaca”, usato ancora oggi per definire gli scoli anche nella lingua italiana. In particolare, il termine napoletano ha origine nella trasformazione del tardo latino di “cloaca” in “clavica”, che sonoramente è già incredibilmente simile alla versione attuale.

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Chi è la lumera? Origine e significato di questa offesa napoletana

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Napoli – Abbiamo ormai imparato che spesso nella lingua napoletana per offendere qualcuno si utilizzano metafore per “addolcire” il tutto. Il termine “lumera” è una di queste parole che oscillano fra l’offesa vera e propria ed una semplice canzonatura. In genere viene usato per apostrofare una donna molto volgare, che subito “parte in quarta” e si infervora iniziando a urlare nel modo peggiore possibile.

“Lumera” sembra non avere nulla a che fare con tutto questo. Per capire il nesso bisogna arrivare all’origine del termine. Nella lingua italiana lo troviamo utilizzato da Dante, nel IX canto del Paradiso: “Tu vuo’ saper chi è in questa lumera / che qui appresso me così scintilla”. Nell’esempio dantesco sta ad indicare una luce molto intensa. Benché il significato nel napoletano sia ben diverso dall’aulica “Divina Commedia”, si tratta di un importante punto di partenza.

La parola, infatti, può essere ricondotta al latino “lumen” (luce) e sta ad indicare qualcosa che fa luce. “Lumera”, in napoletano, ha un altro significato: indica la miccia di una candela, quella che appunto prende fuoco ed emette luce. Qui si trova la metafora alla base dell’offesa. Una donna volgare è paragonata alla miccia di una candela, la “lumera” appunto, che per un nonnulla si “accende”, in questo caso a livello emotivo, e fa fuoco e fiamme.

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“E’ successo un ’48”, perché si dice così?

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Sarà capitato più o meno a tutti di usare l’espressione “è successo un 48” per descrivere e raccontare una determinata situazione. Ma da dove deriva questo modo di dire? Solitamente si usa quando, nella vita di tutti i giorni, avvengono eventi caotici, confusionari e difficili da spiegare. L’espressione “è successo un 48”, quindi, ci permette di semplificare il concetto evitando una spiegazione dettagliata degli eventi.

Il numero 48 si usa per fare riferimento all’anno 1848, caratterizzato da moltissime rivolte popolari borghesi, comunemente identificate con “rivolte del ’48” o, più spesso, “Primavera dei popoli“. Ma il 1848 non è solo simbolo di caos, ma di caos accompagnato al cambiamento. Quindi, quando “succede un 48”, succedono tante cose, ma tutte cose che insieme portano un grande cambiamento.

Il ’48 in Italia

Le rivolte del ’48 hanno portato tantissimi cambiamenti nell’Europa dell’Ottocento, e furono portate avanti dalla classe media borghese in molti dei paesi in cui, dopo la Restaurazione, si erano insediate di nuovo le vecchie monarchie. La prima ondata delle sommosse avvenne in Italia, soprattutto in Sicilia e e nel Regno Lombardo-Veneto, con le Cinque Giornate di Milano che diedero avvio al Risorgimento Italiano. I moti permisero anche la nascita delle costituzioni, lo “statuto albertino” del Regno dei Savoia è rimasto poi in vigore anche nel Regno d’Italia dal 1861, e rimase quasi invariato fino alla Costituzione della Repubblica Italiana del 1946.

Il `48 a Napoli

Particolarmente noti sono gli eventi che riguardarono il Regno delle Due Sicilie. Fu la Sicilia a dare i maggiori grattacapi alla corona poiché i siciliani avevano sempre avuto una forte propensione all’autogoverno che mal si sposava con la riduzione d’autonomia, determinata dall’unione del Regno di Napoli e quello di Sicilia in un unico Stato. I siciliani mal digerivano, inoltre, la preminenza degli elementi dell’aristocrazia napoletana su quella insulare.
Il malcontento montò al punto tale che Palermo si ribellò al potere del re. Aspra e risoluta fu la riconquista dell’isola da parte dei Borbone. Ferdinando II non esitò a bombardare pesantemente la città di Messina. Dopo alcuni mesi i disordini rientrarono e l’ordine venne ristabilito. Si è soliti associare il detto: “faccio succedere un 48” con tali eventi perché questi si contraddistinsero per l’impeto della rivolta e la forza della riconquista.

Il ’48 in Europa

Le rivolte, però, come detto, colpirono gran parte dell’Europa: nella Francia post-napoleonica si instaurò la Seconda Repubblica e anche l’Impero Austro-Ungarico organizzò sommosse che interessarono le regioni di frontiera dell’impero. Ci fu poi un’insurrezione dei tedeschi a Berlino, nel Regno di Prussia, e in alcuni stati della Confederazione Germanica. Solo l’Inghilterra e la Russia, dove la classe borghese viveva in situazioni agiate, furono esenti da rivolte.

Fonti: Corriere.it

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Pastenaca: perché la carota in napoletano si chiama così?

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Napoli – Andando fare la spesa in un mercato napoletano, avvicinandoci ad un banco della verdura, potremmo ascoltare termini che difficilmente riusciremmo ad associare a frutta ed ortaggi conosciuti. La lingua napoletana, infatti, pullula di termini popolari dall’origine antichissima attribuiti ad alimenti conosciuti universalmente in altri modi. Sarebbe difficilissimo, ad esempio, per una persona non originaria di Napoli capire che una “pastenaca” non è altro che una carota.

Il termine è, a dire il vero, piuttosto desueto e viene utilizzato solo dai napoletani più anziani, ancora legati ai modi di dire di un tempo. Difficile è persino risalire all’origine del termine ed al perché venga usato. L’unico raffronto che possiamo avere è con un’altra verdura, molto simile alla carota, chiamata tutt’ora “pastinaca”.

pastinaca

La pastinaca sativa tende a crescere spontaneamente e la sua radice è comunque commestibile, uguale alla carota per forma ed aspetto, ma più bianchiccia e priva del tradizionale colore arancio. La sua particolare adattabilità la rende molto più comune della più gustosa cugina, che richiede comunque maggiori attenzioni per essere coltivata.

Per questo motivo, in molte regioni d’Italia, la carota è stata associata alla pastinaca, specialmente in una tradizione popolare e contadina che ha sempre dato poco peso alle definizioni scientifiche. In napoletano, semplicemente il termine, nell’uso comune, si è trasformato da “pastinaca” a “pastenaca”, andando a definire espressamente l’ormai diffusissima carota.

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