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Channel: Proverbi napoletani Archives - Vesuvio Live
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“Abbuscare” in napoletano ha ben due significati. Sapete la sua origine?

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abbuscare

In napoletano poche parole possono essere interpretate in due modi completamente diversi come avviene con il termine “abbuscare”. Molto usato ancora oggi il suo significato è doppio e dipende prevalentemente dal contesto in cui viene usato. “Abbuscare da qualcuno” significa prendere una sonora “mazziata”, una buona dose di schiaffi, ad esempio. Non sempre questa “mazziata” è fisica: una squadra di calcio che perde con un ingente numero di reti ha abbuscato, così come per qualunque altra sonora sconfitta.

In generale, quindi, usato in modo intransitivo, implica subire qualcosa di violento o di negativo. In modo transitivo, invece, significa ottenere, guadagnare qualcosa di positivo. “Abbuscare qualcosa” implica sempre qualcosa di buono: “mi abbusco lo stipendio”. In genere, però, abbuscare si usa quasi sempre quando si ottiene qualcosa con molto sforzo, quando, insomma, c’è una vera e propria ricerca di quel vantaggio.

Questo doppio significato è spiegato proprio dall’etimologia del termine. “Abbuscare” deriva direttamente dallo spagnolo “buscàr”, letteralmente “cercare”. Anche in spagnolo, usato transitivamente “buscar” significa cercare oppure ottenere e guadagnare qualcosa di ambito, mentre intransitivamente significa “cercarsele” e quindi meritare di prendere botte. L’unica differenza fra i due termini, quindi, è il raddoppiamento iniziale che in napoletano avviene spesso per dare maggiore forza e sonorità alle parole.

Comunque il napoletano non è stata l’unica lingua a recepire il termine: anche in molti dialetti italiani, primo fra tutti il fiorentino, possiamo trovare un “buscare” con lo stesso significato. Emblematica la favola di Pinocchio, dove spesso viene ripetuto al burattino toscano che dovrebbe “buscarle” dal troppo paziente Geppetto.

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Perchè si dice “figlio ‘e ‘ntrocchia”? Ecco il vero significato della parola

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scugnizzi

Nella lingua napoletana si è soliti definire qualcuno particolarmente sveglio, soprattutto un bambino, come “figlio di ‘buona donna’”, per non essere volgari, o anche “figlio ‘e ‘ntrocchia”. Quella che in tutto il mondo è un’offesa gravissima, apostrofare in simili modi la madre di qualcuno non è mai bello, a Napoli è molto più attenuata, assumendo quasi i connotati di un complimento. Si parte dal presupposto, infatti, che un bambino figlio di una prostituta cresca per strada e che sia abituato alla vita più spicciola sin dalla tenera età: uno scugnizzo ancor più autonomo.

Anche questa non è mai stata considerata un’onta sul piccolo, anzi, è sempre valutata come un modo per plasmare un carattere forte ed un’intelligenza agile. Un bambino con una parlantina particolarmente sviluppata o molto sveglio per la sua età è ancora oggi definito “figlio ‘e zoccola”, così come un professionista incredibilmente bravo nel suo lavoro o una persona molto furba e dal comportamento affabile. La variante di “figlio ‘e ‘ntrocchia” è solo un modo meno volgare di intendere la stessa cosa. Per questo motivo viene usato quasi esclusivamente per i bambini che non dovrebbero ascoltare parolacce.

Cos’è, però, questa ‘ntrocchia? La particolarità è che la parola viene usata soltanto in questo detto e non trova altri riscontri nella nostra lingua. Senza ombra di dubbio il significato è quello di meretrice, prostituta, per coerenza con quanto detto fino a questo momento. Per capire la connessione dobbiamo quindi considerare abitudini o nomignoli affibbiati a queste donne sfortunate.

In questo caso possiamo far riferimento al termine “lucciole”: nelle notti più fredde le prostitute tendono a riscaldarsi accendendo falò a bordo strada, cosa che aiuta anche a mettere in mostra la mercanzia. Questa abitudine ed i piccoli bagliori che ne derivano hanno valso la similitudine con i luminosi insetti. Se è vero che la prostituzione è il lavoro più antico del mondo è vero anche che le consuetudini del mestiere siano invariate nei secoli: anche nell’antica Roma, infatti, le prostitute passavano intere notti per le strade e per riscaldarsi utilizzavano delle piccole torce. In latino questi strumenti venivano chiamati “antorcula”. Vi suona familiare?

Secondo una tesi confermata anche dallo studioso Raffaele Bracale, è proprio il termine “antorcula” che è stato tramandato in due millenni di storia fino a trasformarsi nel napoletano “‘ntrocchia”. Possiamo quindi confermare che la traduzione letterale in italiano di “figlio ‘e ‘ntrocchia” altra non è se non “figlio di lucciola’”

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“Si’ na samenta”: come è nata e cosa significa questa offesa napoletana?

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In qualunque tempo, ed in qualunque lingua, le offese peggiori sono sempre state quelle legate in qualche modo alle funzioni biologiche meno eleganti. Così, escrementi e luoghi in cui depositarli sono divenuti metafore ed aggettivi ideali per le peggiori categorie di persone. La lingua napoletana non è differente; in questo, anzi, arricchisce il vocabolario con tante diverse offese di questo tipo. “Samenta” è una di queste.

Partiamo col dire che, per quanto offensivo, è comunque meno volgare del più noto latrina e, quindi, la classica parola napoletana che viene usata per addolcire qualcosa di peggiore. Particolarità è che si tratta di una delle pochissime parole che non cambia desinenza in caso si riferisca ad un uomo o ad una donna, ed in genere questa distinzione viene resa soltanto con l’uso dell’articolo: “nu samenta, na samenta”.

Veniamo ora al significato vero e proprio che, letteralmente, dovrebbe essere quello di sistema fognario, cloaca o gabinetto. Come abbiamo detto, fra le offese di questo tipo è fra le più “delicate”, ma per dare maggiore enfasi e rimarcare il concetto è abitudine continuare con “samenta ‘e mmerda”. Non c’è bisogno di soffermarsi su chi possa ricevere una simile offesa e per quali e quanti motivi. Resta da capire perché a Napoli, e solo qui, “samenta” stia ad indicare proprio le fognature.

Lo studioso Raffaele Bracale trova la risposta nell’isola di Samo, dove un tempo gli abitanti erano famosi per essere abilissimi artigiani di terracotta. Bisogna considerare che in passato i sistemi fognari fossero costruiti proprio in terracotta e, quindi, potevano essere tranquillamente una lavorazione “samens”, per i romani originaria di Samo. Inoltre, nello stesso materiale venivano prodotti vasi da notte ed i wc più antichi.

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“Tenere la candela”: come nasce questa famosissima espressione?

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Almeno una volta nella vita è capitato ad ognuno di noi di trovarsi nell’imbarazzante situazione di “fare la candela” o di “tenere la candela”. Con queste espressioni ci si riferisce a chi si trova ad essere solo insieme ad una coppia di innamorati o, comunque, di persone che si scambiano continue effusioni. È evidente l’imbarazzo di una simile situazione, al disagio provato da un terzo incomodo durante un bacio appassionato dei due compagni o, semplicemente, la difficoltà di intrattenere un dialogo con due persone che si stanno corteggiando.

“Tenere la candela” ha questo significato in tutta Italia, in qualunque dialetto o regione. Perché? Per capirlo bisogna considerare che tradimenti ed amori clandestini esistono da quando esiste il mondo. In assenza di smartphone e pc questi rapporti erano particolarmente rischiosi. Dovevano necessariamente consumarsi nelle ore notturne, col favore delle tenebre: il problema è che parliamo di epoche in cui una strada buia era davvero al buio, senza l’illuminazione elettrica. L’amante rischiava di perdersi prima ancora di raggiungere la sua bella o di incappare in persone poco raccomandabili.

A questi disagi, nobili e signorotti ponevano rimedio con l’ausilio del servitore più fidato, quello che, fra tutti, sicuramente non avrebbe mai riferito delle marachelle del padrone. Il suo compito era quello di accompagnare il signore con una torcia o con un lume, dipende dal periodo storico, ed aspettare che finisse l’appuntamento per riportarlo a casa sano e salvo e fornirgli la luce sufficiente per prodezze. Poteva capitare, infatti, che per raggiungere la sua bella dovesse scavalcare un muro o una siepe, imprese impossibili nel buio più totale.

Lo studioso Pico Luri da Vassano, alla fine dell’800, raccontava quanto fosse importante la famosa “candela”:“Anticamente in fatto di amori furtivi e notturni, e in altre opere ladre, i grandi signori si facevano tenere il lume dal servo più fido. Un lume e un aiuto ce lo voleva per iscalar muri, traversar viottoli, scoprir agguati ecc. Il servo dovea tenere il lume, vedere, ed essere muto e anche sordo”. Insomma, chi, oggi, mantiene la candela è molto simile a quel povero servitore che doveva passare intere serate in attesa che i due amanti finissero di accoppiarsi.

Altri, invece, fanno risalire questo modo di dire ad un’usanza ben più alta: il matrimonio secondo il rito ebraico. La tradizione vuole che i novelli sposi si nascondano sotto lo huppàh, un baldacchino che simboleggia il futuro tetto coniugale. Sotto questo improvvisato riparo è prevista la presenza anche del fratello maggiore dello sposo che illumini con una torcia i due coniugi. In alcune città come Firenze e Roma, al posto di “tenere la candela” si usa “reggere il moccolo”. La parola “moccolo” indica proprio una piccola torcia, a riprova della derivazione dal rito ebraico.

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“La cocozza e tutto il cucuzzaro”. Perché si dice così?

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Contrariamente a quanto si possa credere, la celebre espressione “tutto il cucuzzaro”, pronunciata anche dal principe della risata Totò nel film “Totò, Fabrizi e i giovani d’oggi” (1960), non è propria della Lingua Napooletana ma appartiene e viene usata principalmente nel sud e nel centro Italia, in modo diverso a seconda del dialetto locale.

Cosa indica quest’espressione?

Il termine cucuzzaro deriva dalla parola cucuzza – dialetto siciliano e calabrese – o cocozza – dialetto napoletano – e sta ad indicare, in entrambi i casi, la zucca.
Nello specifico, la frase in questione, viene pronunciata durante un antico gioco per bambini chiamato, per l’appunto, “gioco del cucuzzaro”.

Secondo le regole, un bambino viene nominato, attraverso una conta, come cucuzzaro, ovvero come capogioco temporaneo che ha il compito di dare il via alla manche ed assegnare ad ogni partecipante, le cocozze, un numero a piacere a seconda del numero dei partecipanti.

Parla per primo il cucuzzaro, pronunciando ad alta voce una frase del tipo:
Sono andato nel mio orto e ho raccolto…” – prosegue la frase con un numero, tra quelli assegnati alle cucuzze, a piacere.
La cucuzza nominata (ad esempio la numero due), risponde:
E perché due?
E il cucuzzaro:
Allora quante?
A questo punto la cucuzza dice un altro numero tra quelli in gioco oppure chiama in causa il cucuzzaro, pronunciando la frase: “tutto il cucuzzaro!”, il quale prosegue scegliendo un altro partecipante al gioco.

Se la cucuzza con il numero chiamato non risponde prontamente, viene eliminata dal gioco o deve pagar pegno.

Tutto il cucuzzaro”, oltre ad essere una divertente attività ludica, è diventata anche un’espressione d’uso comune per intendere “tutto quanto” o “tutti quanti” in riferimento sia a persone che a cose.

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“Camorra”: ecco origine e significati della parola più brutta di Napoli

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Purtroppo si parla costantemente di camorra: sparatorie, stese, pizzo, racket e regolamenti di conti entrano prepotentemente nella nostra quotidianità. È inutile, quindi, soffermarci su cosa sia e su cosa facciano i camorristi, su quanto sia ingiusto e su quanto Napoli potrebbe crescere se la giustizia cancellasse questa parola in maniera definitiva. Eppure, nonostante invada titoli e libri, in pochi conoscono l’origine della parola “camorra” ed a chi o cosa si riferisse prima dell’attuale degenerazione.

A dire il vero, tanti studiosi hanno cercato di dar risposta a questo dubbio e, ad oggi, non si è ancora raggiunta una piena certezza. L’enciclopedia Treccani offre la soluzione più immediata facendo derivare il termine “camorra” dalla città biblica Gomorra: l’Antico Testamento racconta come Dio rase al suolo la città, insieme alla vicina Sodoma, per la degenerazione e la malvagità degli abitanti. Non a caso il titolo del fortunato best-seller di Roberto Saviano è proprio “Gomorra”. Tuttavia, questa interpretazione sembra troppo legata alla visione attuale della camorra, un male assoluto, e mal si combina con un fenomeno che esiste sulla nostra terra da secoli.

Sotto questo piano è preferibile la tesi del prof. Abele De Blasio, docente presso la Federico II, che lega “camorra” a “Gamurra”, un’associazione di mercenari sardi che spadroneggiava nel mar Tirreno nel XIII sec.. La gamurra era anche una giacca corta usata nel medioevo dai lazzaroni e dai poco di buono. Anche in questo caso, le interpretazioni non sono del tutto convincenti perchè poco adatte a quello che effettivamente è stata ed è la malavita napoletana.

Il prof. Zamboni, invece, fa derivare la parola dal termine latino “camerarius”, che tradotto significa “tesoriere”. Questa interpretazione riesce a rapportarsi meglio con l’avidità che ha sempre caratterizzato il camorristi e con le loro attività estorsive. La versione più attendibile, però, vuole che il termine sia nato come denominazione di gioco d’azzardo e che avesse origine in “morra”, gioco da strada antichissimo. Non a caso la prima volta in cui è apparsa ufficialmente la parola “camorra” è stata come nome di una tassa sul gioco d’azzardo, promulgata dal Regno di Napoli nel 1735. La “camorra” veniva versata a chi proteggeva i locali addetti a queste attività al fine di evitare risse e liti.

Queste sono le interpretazioni più accreditate e, sicuramente, l’etimologia reale risiede in una di queste teorie. Più per spirito che per grammatica, però, ci sentiamo di tirare in ballo un termine molto simile della Lingua Siciliana: “camurria”. La parola significa volgarmente “fastidio”, “disagio” e si fa derivare direttamente dal latino “gonorrhoea”, appunto la fastidiosa malattia venerea conosciuta come gonorrea. Per quanto molto simili, “camorra” e “camurria” non hanno in comune né origine né significato, ma ci piace pensare che il morbo che affligge Napoli venga associato ad una insopportabile, disgustosa e vergognosa malattia sessuale.

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Inciucio: da parola napoletana a termine usato nei giornali di tutta Italia

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In qualunque tempo ed in qualunque paese se c’è una cosa che uomini e donne hanno sempre fatto, un’attività universale, è “inciuciare”. L’“inciucio” esiste da sempre: probabilmente quando il primo antenato dell’uomo si alzò su due zampe, le altre scimmie erano dietro di lui a sparlare dell’accaduto e di quanto fosse stato un gesto spregiudicato. Non sarebbe neanche necessario specificare cosa sia un inciucio, ma, per onor di cronaca, è giusto farlo.

A Napoli si chiama così il pettegolezzo costante, il parlottio a bassa voce riguardo qualcuno o qualcosa. Quante storie clandestine, vere o presunte, sono nate e cresciute fra parole e maldicenze, quanti segreti, di stato o di famiglia, sono stati diffusi nel giro di poche ore perchè giunti all’orecchio di una persona pettegola. Come cantava de Andrè in “Boccadirosa”: “Una notizia un po’ originale non ha bisogno di alcun giornale, come la freccia dall’arco scocca gira veloce di bocca in bocca”.

Nel linguaggio comune, però, bisogna aggiungere che “inciucio” è arrivato a significare non solo l’attività di “inciuciare”, ma l’oggetto stesso della discussione. Con questa parola si può arrivare a chiamare anche qualcosa che potrebbe generare l’inciucio collettivo. Non è raro che un rapporto segreto fra due persone venga nominato impropriamente “inciucio”. Un’accezione che ha trovato proseliti nell’ambito giornalistico, come vedremo in seguito.

Da dove deriva questo termine è ancor più semplice da comprendere. “Inciucio” altro non è se non una parola onomatopeica che emula il suono di più persone che parlano a bassa voce: un costante e sommesso “ciù ciù ciù”. Non solo a Napoli al pettegolezzo viene definito in questo modo, basta pensare che il termine “chat”, oggi conosciuto da tutti, deriva proprio dalla parola onomatopeica inglese con lo stesso significato del nostrano “inciucio”. Secondo un’altra teoria, invece, deriverebbe da “ciucia”, che nella nostra lingua indica l’organo genitale femminile: il motivo sarebbe che l'”inciucio” è considerato da sempre attività preferita dalle donne.

Come abbiamo anticipato, da termine prevalentemente napoletano, l’inciucio è entrato nel vocabolario italiano e viene usato in particolar modo dalle testate giornalistiche. Un inciucio fra due politici appartenenti a partiti diversi sta ad indicare un “abboccamento”, un avvicinamento che potrebbe portare vantaggi ad entrambi o, addirittura, qualcosa volto a violare le consuetudini e le norme. Questa “evoluzione” del termine si deve ad un errore di un giornalista.

Nell’ottobre del 1995, quando nei tribunali, in Parlamento ed in tutta Italia si discuteva del fenomeno “Mediaset” e dell’ascesa di Silvio Berlusconi, il giornalista Mino Fuccillo pubblicò su Repubblica un’intervista a Massimo D’Alema. Fra le domande poste ce n’era una in cui si chiedeva se fosse in atto un “inciucio” fra i Democratici di Sinistra ed il Cavaliere. Fu allora che la parola napoletana, usata in maniera erronea, entrò nel vocabolario e nell’uso di tutta Italia.

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“Spuzzuliare”è un’abitudine tutta napoletana: ma perché si dice così?

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Immaginate una tranquilla domenica mattina a casa, in famiglia, mentre si prepara il pranzo. Il ragù si sta assestando nella pentola diffondendo il suo odore per tutta la cucina, staccate un pezzo di pane e fate un’abbondante scarpetta all’interno. Dopo poco notate che sul tavolo è poggiato un vassoio di dolci aperto e per gola staccate un pezzetto di sfogliatella. Poi, si inizia a friggere le polpette, una va assaggiata per devozione. Così, avete “spuzzuliato” per tutta la mattinata. Così, anche quando aprite costantemente il frigorifero, o spezzate una dieta ferrea con qualche boccone pomeridiano.

“Spuzzuliare”, in napoletano, è un verbo che indica proprio questo mangiare disordinatamente piccoli assaggi di tutto. E’, per sua natura, un termine che mette allegria, che mette subito appetito: forse perchè implica una golosità costante o, semplicemente, perchè quando si può spuzzuliare vuol dire che si è in un clima familiare ed amichevole. Pur se usato frequentemente solo a Napoli, il termine non ha un origine prettamente nostrana.

“Spuzzuliare” è solo una semplificazione del verbo italiano “spilluzzicare”, forma arcaica di “spiluccare”. Una derivazione che si manifesta anche nel significato. Secondo la Treccani, infatti, “spilluzzicare” vuol dire: “assaggiare piccole quantità di un cibo o di cibi diversi, per svogliatezza o anche, fuori pasto, per calmare l’appetito o per ghiottoneria”. L’origine è da attribuirsi a “peluzzo”, piccolo pelo, o “spillo”. In ogni caso fa riferimento a qualcosa di molto piccolo ed il senso è prendere una minima parte da qualcosa di più grande, proprio come una scarpetta, pur se fatta bene, è una minima parte del ragù.

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Feste, farina e forca: le tre F di Ferdinando per governare il popolo napoletano

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Re Nasone

Napoli – Governare un intero popolo non è mai stata cosa facile specialmente in tempi in cui c’era un divario forte fra chi comandava, ad esempio un re, e chi obbediva. Una difficoltà resa evidente dalle numerose rivolte, prima fra tutti la Rivoluzione Francese, conclusesi con teste mozzate e spargimenti di sangue blu. Ferdinando di Borbone, nonostante i suoi modi da popolano ed il suo disinteresse nella politica, questi problemi li conosceva bene e gli divennero ancor più chiari con la Repubblica Napoletana del 1799.

Molti storici, fra i quali il romanziere e giornalista francese Alexandre Dumas, raccontano che il re Nasone avesse una regola precisa con cui trattare il popolo napoletano, conosciuta come le “tre F di Ferdinando”: feste, farina e forca. Il popolo per prima cosa va distratto con continui festeggiamenti: funzioni religiose, balli, spettacoli gratuiti in grado di allontanare lo sguardo dai problemi reali, creare aggregazione e, soprattutto, far provare gratitudine per i governanti. Una realtà che si potrebbe riscontrare anche nella nostra epoca considerando come, alla luce di un importante evento sportivo o televisivo, problemi politici o economici passino in secondo piano nei discorsi comuni.

Un popolo che non si ribella è anche un popolo che riesce a mettere il pane sulla tavola tutti i giorni: nonostante i bei discorsi, le lotte di classe, le ideologie e la voglia di libertà le rivoluzioni scoppiano sempre e solo quando la gente è disperata ed arrabbiata con i potenti. Se i napoletani continuavano a mangiare maccheroni, Ferdinando poteva esser convinto che nessuno avrebbe rischiato vita e benessere per un incerto ideale. Forse, il motivo per cui nel mondo “civilizzato” le rivolte si limitano a cortei ed eventi su Facebook è proprio che, nonostante la crisi, la nostra è un’epoca di benessere dove qualche moneta per il pane si trova sempre.

La forca era la paura che, sempre e comunque, i sudditi devono provare nei confronti dell’autorità: divertenti le feste, bello mangiare, ma un monarca deve far rispettare i suoi ordini e le leggi. Per questo le esecuzioni venivano svolte in pubblica piazza, in presenza di tutta la cittadinanza: tutti dovevano assistere, tutti dovevano comprendere cosa succedeva a chi andasse contro l’ordine costituito. Da un certo punto di vista, però, la forca assumeva un compito simile alla festa divenendo un altro momento di aggregazione, un modo per far sentire tutti i cittadini onesti parte di una comunità stabile e sicura. Non a caso, ancora oggi, i programmi più visti in TV sono quelli in cui si parla di processi e delitti particolarmente sentiti.

Insomma, l’illuminato Ferdinando aveva solo scoperto ed ammesso una verità assoluta. Non dimentichiamo, tuttavia, che le pubbliche esecuzioni sono state il deterrente ai crimini più in voga in tutta Europa, dunque quella napoletana non era un’eccezione, visto che nelle altre nazioni si faceva esattamente la stessa cosa “in ossequio” a un’usanza radicata da millenni.

I romani, ad esempio, già conoscevano simili mezzi di controllo: non a caso i giochi gladiatori venivano offerti da possidenti e magistrati della città per essere gratuiti anche per la plebe. A Giulio Cesare si attribuisce un detto molto simile a quello del nostro monarca borbonico: “panem et circenses” (pane e spettacoli). Guardando avanti, invece che al passato, possiamo ancora notare come il nostro mondo segua regole troppo simili.

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‘O Panaro, invenzione made in Napoli: ma come nasce?

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Chiunque sia passato almeno una volta per le stradine strette del centro storico di Napoli e abbia alzato, anche di poco, gli occhi al cielo, non ha potuto far a meno di notare la discesa, dall’alto di un balcone o d’una finestra, di un piccolo cestino, il cosiddetto panaro.
Quella del panaro è una particolare ed imprevedibile usanza, frutto d’una tradizione totalmente made in Napoli, tramandata di generazione in generazione, sacra per gli abitanti del Sud, ma sconosciuta e incomprensibile al resto d’Italia.
Cos’è il panaro e qual è il suo uso?

Il panaro è un cestino intrecciato in vimini di forma emisferica o cilindrica munito di un manico ricurvo. Il termine deriva dal latino panarum che stava ad indicare un cesto nel quale riporre il pane. E’ proprio da questa parola che nasce il sostantivo italiano paniere.
Il paniere, inoltre, è stato spesso utilizzato anche come contenitore per la racconta della frutta e della verdura poiché, grazie al suo robusto manico, era facile da appendere ai rami degli alberi.

Sebbene in campagna conservi ancora la sua funzione primitiva, in città assolve a compiti di trasporto molto più complessi e creativi.
Utilizzarlo è molto semplice, basta legare al suo manico una resistente cordicella e, all’occorrenza, abbassarlo a mo’ d’ascensore tenendo ben salda il resto della funicella con le mani e facendo attenzione alle teste dei passanti e a non farlo impigliare nei fili dei panni stesi degli inquilini ai piani inferiori.

La sua finalità, come è facilmente intuibile, è il trasporto, dall’alto verso il basso e viceversa, di qualsiasi oggetto, evitando così al soggetto proprietario la discesa in strada.
Poco importa se viene utilizzato dal primo o dall’ultimo piano, per trasportare le chiavi di casa dimenticate o la spesa acquistata dall’ambulante di turno, il panaro rappresenta una tradizione radicata nel popolo partenopeo che non può non strappare un sorriso.

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“Fà ‘e cofecchie”. Da dove deriva questa espressione napoletana?

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E’ nell’indole degli essere umani la cattiva abitudine di ficcare di continuo il naso in questioni altrui, che non lo riguardano in prima persona. Ed è, ancor più diffusa, l’usanza di trasformare una semplice notizia raccontata da terzi in una vera e propria tragedia greco-romana.
A ogni napoletano, almeno una volta nella vita, sarà capitato di pronunciare o ascoltare la tipica espressione staje facenno ‘e cufecchie intendendo il tipico parlottio, fatto in capannello e a bassa voce, alle spalle di qualcuno o qualcosa.
E’ questa l’attività preferita da uomini e donne quando si riuniscono fra loro, è una pratica che, proprio come l’abito nero, non passa mai di moda.

Nonostante sia ancora abbastanza utilizzata dal popolo partenopeo, la parola cufecchia vanta un’origine molto antica, difatti lo studioso, nonché autore di diversi vocabolari di lingua napoletana, Carlo Iandolo, sostiene che il termine derivi dall’aggettivo greco kóbalos, traducibile con i sostantivi furbo e imbroglione o addirittura con i verbi ingannare, beffare, raggirare e burlare.
Tuttavia esistono anche forme di traduzione che, probabilmente, si avvicinano molto di più all’utilizzo moderno ed attuale. Stiamo parlando di sparlare, spettegolare, inciuciare, ovvero tutte quelle pratiche fatte sotto banco con un pizzico di cazzimma.

In realtà fà ‘e cofecchie ha anche una doppia accezione e può alludere all’atto di amoreggiare o flirtare con una persona diversa dal partner ufficiale, quindi fa riferimento all’imperdonabile imbroglio fatto ai danni del proprio o della propria consorte, in poche parole al tradimento coniugale.

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Sciuscelle: da merendine dei napoletani di un tempo a modo di dire. Ecco cosa significa

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Viviamo in tempi di relativa ricchezza, dando per scontati piaceri o semplici vantaggi che i nostri nonni o, addirittura, i nostri genitori si sarebbero sognati. Così, ci risulta difficile immaginare che un tempo non molto lontano, a Napoli, anche la cioccolata era un lusso per pochi ed i bambini erano costretti ad accontentarsi di quello che trovavano, ad esempio delle sciuscelle.

Questo era il modo con cui a Napoli vengono chiamati i frutti del carrubo: un albero che cresce facilmente anche senza un clima favorevole. Ad esempio, la zona circostante a Port’Alba era disseminata di queste piante al punto che l’antica entrata viene chiamata ancora oggi “Porta Sciuscella”. Proprio per la semplicità con cui crescono, i frutti del carrubo sono usati come foraggio per i cavalli, ma i semi sono usati anche nella preparazione di medicinali e la farina è largamente impiegata nell’industria dolciaria.

I bambini napoletani, però, tutto questo non lo sapevano: a loro interessava solo che quei baccelli marroni e morbidi fossero particolarmente dolci e morbidi da addentare. Insomma, per anni le “sciuscelle”, o carrube, sono state le sostitute delle attuali merendine. Nonostante, oggi, vengano usati in cucina quasi esclusivamente per la preparazione di brodini e zuppe, la diffusione di questi frutti li ha fatti entrare così tanto nella cultura popolare che il termine “Sciuscella” è ancora molto utilizzato.

In tale modo si definisce un oggetto fragile o poco durevole, ad esempio qualche vecchio mobile creato con legno scadente, oppure una persona smunta ed emaciata che sembra reggersi in piedi a fatica. Modo di dire trarrebbe origine dell’estrema malleabilità dei frutti ed è generalmente usato in modo dispregiativo. Resta solo un dubbio, adesso, capire perché a Napoli il carrubo ha preso il nome di sciuscella.

Mentre il termine italiano deriva dall’arabo “harruba”, il napoletano “sciuscella” trarrebbe origine direttamente dal latino. Deriverebbe infatti dal termine “iuscellum”, cioè “brodino”. Questo ricollega il nome napoletano al modo principale in cui viene cucinato il frutto ed al modo di dire ad esso collegato: quindi qualcosa di cedevole, morbido e malleabile come un brodino acquoso.

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“Mandare o andare a carte 48”: ecco origine e significato del detto

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Non tutti i modi di dire sono facilmente intuibili: in alcuni casi i significati possono essere molteplici e dipendenti esclusivamente dal contesto in cui vengono detti. Queste difficoltà, in genere, si riscontrano in detti che nel corso dei secoli hanno cambiato ripetutamente significato o, semplicemente, la cui origine è dubbia. E’ il caso di “mandare a carte 48” qualcuno. Di origine napoletana viene usato oggi in gran parte d’Italia ed ha vari significati: mandare al diavolo, mandare in rovina, sconvolgere, far perdere tempo ed, in un’accezione moderna, distruggere o uccidere.

I significati più “negativi” possiamo farli derivare direttamente dai moti risorgimentali del 1848, quella serie di rivolte ed insurrezioni di comuni e regni italiani contro le monarchie straniere che li dominavano. Espressioni come “qui succede il quarantotto” o “mandare a carte 48” sono un modo per indicare che la classica goccia che fa traboccare il vaso è caduta e si è sull’orlo di fare una rivoluzione o un’azione istintiva e violenta.

Il detto, però, esiste da molto prima dei moti in questione e, come abbiamo scritto, ha significati ben differenti. Una prima origine si può ricavare dal gioco della “Scopa”. Gli esperti delle carte conoscono una strategia che prende il nome di “regola del 48”: si tratta, in poche parole, di ricordare le carte prese singolarmente dall’avversario a terra e di giocare tenendo in conto ogni singola mossa dell’altro. Un sistema complesso che richiede grande memoria e grande impegno. In questo caso “mandare qualcuno a carte 48” significa farlo invischiare in un qualcosa di complesso e noioso.

Altra possibile origine è, secondo Lo Sciaqualingua, riscontrabile nell’antica numerazione delle pagine dei libri. Un tempo, infatti, le pagine come le conosciamo noi non venivano considerate, ma si parlava di “carte”: la pagina era, ed è tutt’ora, un lato del foglio, o il fronte o il retro, la carte, invece, era l’intero foglio comprensivo di fronte e retro. Basandoci su questo “mandare a carte 48” potrebbe significare rimandare un lettore ad un determinato punto del libro, particolarmente avanzato. Simbolicamente un modo per mandare qualcuno a perdere tempo a fare qualcosa di inutile.

Al posto di “mandare” qualcuno si trova anche l’accezione di “andare a carte 48”: in questo caso ci si riferisce a se stessi e si ammette di stare andando in confusione oppure di aver perso la pazienza e di star per fare una follia. Per quanto, quindi, tutti questi significati hanno origini diverse il senso si ricollega sempre ad una forma di confusione o di perdita di pazienza.

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“Te manno ê Pellerini”: perché si dice così?

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Chiesa Pellegrini, inglobata ospedale

E’ ormai risaputo che gli abitanti della città di Napoli spiccano di fantasia e creatività. Anche quando si tratta di mandare a quel paese le persone. I modi classici, bene o male, li conosciamo tutti, però esistono dei luoghi specifici dove indirizzare il malcapitato di turno.

Ne è un esempio l’espressione Te manno ê Pellerini. Di facile traduzione, sta ad indicare le intenzioni non propriamente pacifiche del mittente del messaggio. Infatti quando si parla del Pellegrini di Napoli, s’intendere l’Ospedale omonimo. L’intenzione è quindi quella di mandarlo al Pronto Soccorso a suon di percosse.

Entrando nello specifico, l’Ospedale Pellegrini è conosciuto dai suoi cittadini come il Vecchio Pellegrini ed è situato nel centro di Napoli, in via Portamedina alla Pignasecca. Disegnato da Carlo Vanvitelli, fu costruito nel 1578 insieme alla Chiesa della Santissima Trinità dei Pellegrini per volere del cavaliere gerosolimitano Fabrizio Pignatelli di Monteleone. Entrambe le strutture furono poste sotto il controllo della Confraternita della Santissima Trinità e ampliate solo nel 1769.

Lo scopo principale dell’istituzione era quello di offrire un luogo di culto e dar assistenza ai fedeli di passaggio in città.
In origine, il pronto soccorso della confraternita offriva esclusivamente cure e medicazioni a seguito di fratture, lesioni violente e scottature. In numero limitato concedeva anche la sepoltura gratuita ai meno abbienti, purchè cattolici e residenti a Napoli.
Nel 1806 i beni della Confraternita furono incamerati dallo Stato che in cambio stanziò i finanziamenti necessari al corretto funzionamento dell’ospedale. Nel 1816 aprì il primo reparto di chirurgia.
Solo dopo la ricostruzione dell’edificio distrutto dalla seconda guerra mondiale, l’Ospedale fu ampliato e furono diversificati i settori clinici. Proprio in quel periodo, il Pellegrini cessò d’essere proprietà della Confraternita per passare nelle mani dello Stato.

Fonti:
– Colella A., Manuale di Napoletanità
– Iannitto M.T., Guida agli archivi per la storia contemporanea regionale: Napoli

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‘E riscenzielli: che cosa sono e perché si dice così in napoletano?

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Ci sono molti termini ed espressioni dialettali che incuriosiscono a causa della loro singolarità, o significato particolare. Diverse sono le parole che, apparentemente, sembrano non avere più alcun senso o che sono cadute in disuso ma, in realtà, hanno un’etimologia precisa ed hanno avuto un’accezione certa.

Questo tipo di situazione ha una duplice importanza. In primis fa risultare evidente quanto stratificata e complessa sia la cultura napoletana che attinge a piene mani dal proprio passato, magnogreco prima e latino poi. In secundis la grande varietà di espressioni e termini certifica e testimonia, in modo inequivocabile, che quella napoletana non è una semplice declinazione dialettale ma una vera e propria lingua.

Il termine sul quale si vuole richiamare l’attenzione è “riscenziello”. Vocabolo molto utilizzato ai tempi dei nostri nonni che oggi pare stia precipitando nella spirale del disuso. Esso deriva da “descensus”, che significa caduta, discesa. La sua etimologia è quindi latina. Quando si parla di “riscenziello” si vuole fare rifermento alle convulsioni, probabilmente di natura epilettica, alle quali i bambini sono soggetti, spesso durante il sonno.

Questo tipo di spasmo può essere così forte da poter causare addirittura uno svenimento. Il termine medico che indica tale problematica è eclampsia infantile. È proprio nell’atto dello svenimento, che prevede la caduta del malcapitato, che è possibile capire perché vi sia collegamento tra la parola “riscenziello” e la sua etimologia latina.

In realtà il significato dell’espressione “riscenziello”, nel corso del tempo, si è arricchito di una sfumatura che in passato non possedeva. Quando oggi si ricorre a tale vocabolo si vogliono indicare, bonariamente, i capricci prolungati e spesso insensati dei bambini. Questi talmente che si dimenano durante il pianto che paiono esser preda di uno spasmo che facilmente riporta alla mente proprio l’eclampsia.

In conclusione con riscenziello oggi si possono richiamare due situazioni diverse: le convulsioni ed i capricci di un bambino. Entrambe queste cose hanno però in comune quello spasmo, sia esso patologico o indotto forzatamente.

Fonti:
– Etimologia delle parole napoletane

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“Fà l’opera ‘e pupo”: sapete da dove deriva e cosa significa questo antico detto?

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Non tutti i detti napoletani hanno origine in tradizioni tipicamente nostrane. Per questi particolari casi dobbiamo ricordare che Napoli fu, per secoli, capitale di un regno che andava dalla Campania alla Sicilia ed è quindi naturale che abbia assorbito alcune cose dalle altre città del meridione. “Fà l’arte (o opera)’e pupo” è uno di questi esempi, ma, per prima cosa, dobbiamo spiegare i suoi significati.

Infatti, come in molti altri casi, il detto può avere due interpretazioni differenti a seconda del contesto. “Famme fà l’arte ‘e pupo” è detto generalmente con perentorietà da chi sta finendo un lavoro e viene costantemente disturbato: un modo per dire “fammi finire il lavoro, quello che sto facendo, e ti do retta”. In questo caso notiamo come “l’arte ‘e pupo” rappresenta qualcosa di importante ed irrinunciabile che necessità dell’attesa di tutti gli altri.

Viceversa, dire scherzosamente “fà l’arte ‘e pupo” significa accusare qualcuno di star perdendo tempo in qualcosa di inutile e superfluo. Uno sfottò tipicamente napoletano rivolto principalmente a chi cerca di convincere gli altri di essere impegnato in qualcosa di estremamente complesso quando in realtà è una cosa semplicissima. Entrambe le interpretazioni sono legate indissolubilmente ad un’antica arte siciliana: l’arte dei pupi.

I pupi sono quelli che oggi chiamiamo, più comunemente, marionette. Quelli tipici siciliani sono in genere dei cavalieri in armatura con casacche colorate. I veri pupi raffigurano Carlo Magno e tutti i suoi cavalieri immortalati in poemi epici ed antiche leggende: proprio questo folklore fornì le trame dei primi spettacoli di marionette. Col tempo, i meridionali trasformarono quegli innocui spettacoli in qualcosa di più profondo.

Quei cavalieri in miniatura che si bastonavano nelle piazze fra le risate dei bambini avevano nomi di tempi andati, ma per il popolo iniziarono a rappresentare politici, possidenti e sovrani mal digeriti. Non era più il prode Rolando a perire eroicamente sotto i colpi dei mori, ma un onesto palermitano sotto il peso delle gabelle, non era più Carlo ad essere ridicolizzato per scappatelle e perversioni, ma il Borbone di turno.

Nel 1800, secolo critico per la monarchia, l’arte dei pupi era una ‘pazziella’ per i bambini ed allo stesso tempo un’arma per la propaganda, goliardia di piazza e scintilla per una rivolta, sciocchezza e realtà. Oggi sono giocattoli di tempi passati, oggetti da museo e spettacoli per le feste tradizionali di paese. Eppure, la loro ambiguità, la loro doppia natura di gioco ed arte continua a persistere nella doppia interpretazione della semplice frase “fa’ l’arte ‘e pupo”.

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“Chiacchiere e tabacchere ‘e ligno, ‘o Banco ‘e Napule nun se ‘mpegna”: cosa significa?

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Quante promesse e quanti giuramenti vengono proferiti in tono solenne per poi venire dimenticati in pochi giorni: un amante che giura fedeltà, un debitore che garantisce di saldare tutto in pochi giorni, un politico che assicura di risollevare un paese… tutti noi abbiamo sentito o, addirittura, detto qualcosa del genere. Un vero napoletano, però, uno di quelli ormai abituati a questi mezzucci, a sentirli nuovamente potrebbe rispondere con “Chiacchiere e tabacchere ‘e ligno, ‘o banco ‘e napule nun se ‘mpegna”.

Questo antico detto è fra i più immediati e semplici da comprendere: mostra quanto siano vuote le promesse fatte con leggerezza o senza alcuna base. Analizzandolo più nello specifico è evidente che il modo di dire abbia avuto origine quando il Banco di Napoli era il più grande istituto di credito del Mezzogiorno e la sua attività era prevalentemente quella di prestare denaro prendendo in pegno beni di valore.

Allora, come oggi, non era facile chiedere dei soldi in prestito ed ovviamente gli oggetti dati in pegno dovevano avere un valore consistente: gioielli, immobili, mobilio importante. Certamente il Banco di Napoli non avrebbe mai concesso un finanziamento basandosi solo ed esclusivamente sulle “buone intenzioni” e su progetti senza fondamento: chiacchiere, parole vuote. Abbiamo spiegato la prima cosa che non può essere impegnata. Le “tabacchere”?

Parliamo delle antiche scatole di legno che venivano utilizzate per trasportare tabacco, le “tabacchiere” appunto. In ceramica o in altri materiali pregiati costituivano oggetti preziosi ed ideali da regalare, come spiega la Treccani, ma in legno erano usate solo dai popolani ed avevano uno scarso valore. Nel detto rappresentano, quindi, un oggetto facile trovare e di poco valore inutile da impegnare.

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“Core ‘e mammà”: i migliori proverbi napoletani sulla donna più importante

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Gli italiani sono un popolo di mammoni secondo un luogo comune internazionale, ma è a Napoli che questa credenza ha un fondamento reale. Come potrebbe non essere così? Le famiglie napoletane sono particolarmente matriarcali: la moglie decide, porta avanti la casa, educa i figli, cucina, lavora. E’ naturale che qualunque uomo napoletano non troverà mai una donna più importante di sua madre, non si sentirà mai amato come quando veniva definito “core ‘e mammà” (cuore di sua madre).

Quello di una mamma è un amore universale, sai che non devi conquistarla perché a lei piaci a prescindere. Del resto, come cantava anche Pino Daniele “ogne scarrafone è bbello ‘a mamma soia” (anche gli scarafaggi sono belli per la loro madre). La mamma consola sempre, qualunque sia il problema. Sia da bambini che da adulti le braccia di una madre riescono ad alleviare qualunque sofferenza ed è proprio vero che “chi tene ‘a mamma nun chiagne” (chi ha la mamma non piange).

Può capitare, invece, che un figlio non voglia chiedere aiuto ai genitori, non voglia far preoccupare troppo la mamma. Anche in quel caso, anche nel silenzio assoluto, lei riesce comunque a capire con un semplice sguardo. In quel caso è probabile che dica sorridendo che “‘o figlio muto ‘a mamma ‘o ‘ntenne” (una madre capisce anche un figlio muto).

Il bello è che per quanti figli possa avere una madre dispenserà sempre il suo amore allo stesso modo per tutti, come il sole illumina tutta la terra. Come si dice a Napoli  “una mamma è bona per ciente figlie, ciente figlie nun so’ bone pe’ na mamma” (una mamma basterebbe a cento figli e cento figli non basterebbero ad una mamma).

Più cresciamo, più ci rendiamo conto di quanto sia importante quella presenza, più stringiamo rapporti, incontriamo persone, ci innamoriamo, più ci rendiamo conto che  “chi te vo’ bene cchiù de’ mamma, te ‘nganna” (chi afferma di volerti bene quanto una mamma ti inganna). Mentre invece “l’ammore ‘e mamma nun te ‘nganna” (l’amore di una mamma non ti inganna mai).

Tutte le mamme sono le migliori per i figli e se non lo sono o commettono errori gravi vengono perdonate. Un uomo molto saggio potrebbe dire che “è meglio ca more ‘nu bbuon pate che ‘na cattiva mamma” (un figlio preferirebbe la morte di un buon padre piuttosto che quella di una madre, pur se cattiva). Perché alla fine succede: la persona più importante della nostra vita è destinata a lasciarci, nessuna madre vorrebbe sopravvivere a suo figlio.

Come spesso avviene per le cose importanti, solo dopo averla persa ci rendiamo conto di quanto fosse importante per noi la mamma. Così ci troviamo ad iniziare ogni frase con “comme diceva mammà”, ogni piatto che assaggiamo pensiamo che non è “comme ‘o faceva mammà”.

Che ci sia ancora o non ci sia ancora la madre, bambino, ragazzo, adulto o anziano quando si sentirà solo, quando avrà bisogno di un amore incondizionato e due braccia confortanti, quando avrà paura con un sussurro o un urlo chiamerà sempre “mammà”.

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“Ce manca l’asso ‘o doje e ‘a tuvaglia ‘e Fiandra”: ecco cosa significa

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Spesso i proverbi napoletani servono a sdrammatizzare situazioni pesanti, ad esprimere in maniera ironica concetti piuttosto pesanti. Così, “Ce manca l’asso ‘o doje e ‘a tuvaglia ‘e Fiandra”, apparentemente simpatico, sta ad indicare una situazione in cui mancano le basi, l’essenziale, qualunque cosa occorra per intraprendere un’azione. Organizzare una partenza senza soldi, biglietti e valigie, un matrimonio senza amore, una manovra finanziaria senza fondi… gli esempi sono tanti.

Il realtà, il detto originario sarebbe “Ce manca l’asso ‘o doje e ‘o tre”. L’espressione, come è evidente, deriva dalle carte da gioco. Dialettando.com è più specifico nell’associarla al gioco del “tressette”: la combinazione dell’asso del due e del tre dello stesso seme, rappresenta il punto più alto per vincere. È evidente come, mancando le tre carte principali, sperare di vincere o, addirittura, di giocare sia impossibile.

“‘A tuvaglia ‘e Fiandra” è un’aggiunta al detto, un’esagerazione, un modo per indicare una situazione ancor più drastica. Non mancano solo le tre carte principali, ma persino una tovaglia su cui giocare. Perché, allora, proprio di Fiandra? Le tovaglie di questo pregiato tessuto erano presenti in qualsiasi rispettabile corredo: ancora oggi ognuno ne avrà almeno una in casa, tramandata da qualche nonna. Non averla era quindi impensabile per una famiglia.

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‘O Sparatrappo: ecco perché il cerotto in napoletano si chiama così

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Chi non ha mai sentito parlare dello “sparatrappo”?
Ma che cos’è precisamente e perché si chiama così?

A Napoli, con il termine “sparatrappo” s‘intende un cerotto adesivo in cotone o in seta utilizzato per fissare accuratamente le bende o le garze. Il vocabolo, che deriva dal francese sparadrap e dal latino medievale sparadrapum, è così tanto conosciuto e diffuso nella sua variante partenopea al punto che molti sostengono di non saper dare una definizione in italiano dell’oggetto in questione.

In molti vocabolari della lingua italiana come ad esempio il Grande dizionario italiano dell’uso, il Garzanti, lo Zingarelli e molti altri, possiamo rintracciarlo alla voce sparadrappo, quindi sostituendo semplicemente la lettera t con la d. Inoltre lo sparadrappo non è solo un semplice cerotto ma, ha anche un’accezione medico – farmaceutica: “tessuto imbevuto di liquido medicamentoso da applicare su piaghe e ferite”. Non solo. Grazie ad alcuni testi di medicina e farmacia, è stato confermato che, in passato esistevano diverse tipologie di sparadrappo utili per curare le ulcere delle gambe e delle braccia.

Secondo fonti non accreditate il termine sparatrappo era già in uso in Spagna nel XVI secolo – esparadrapo – e fu portato a Napoli durante il governo di Don Pedro Alvàrez de Toledo. A quei tempi lo sparatrappo, una strisciolina di tela su cui era posta della colla, veniva utilizzato per fissare gli stendardi alle aste, quindi per distendere i drappi delle bandiere.

Questo lemma è proprio non solo della lingua napoletana, ma è diffuso anche in molti altri dialetti meridionali come quello calabrese, salentino e siciliano.

Quindi sparadrappo, sparatrappo, esparadrapo, sparatrappu o in qualunque altro modo lo si voglia chiamare, non è altro che una parola napoletana ma dal significato universale.

Fonte: Accademia della Crusca

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