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‘A guallera: ecco i motivi e occasioni in cui a Napoli si usa questa parola

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significato di guallera napoletanoLa guallera è il sostantivo napoletano che sta ad indicare l’ernia inguino-scrotale giunta nella sua fase più avanzata e grave, quando provoca il rigonfiamento abnorme dello scroto, ossia della sacca che contiene i testicoli, provocando vari fastidi alla persona che ne fosse affetta, in certi casi addirittura invalidante. Il termine guallera spesso viene erroneamente scritto “uallera”, o reso con un “wallera” che fa accapponare la pelle per quanto è orrendo e, consentitemelo, ignorante: la lettera “g” in Napoletano è infatti spesso muta o semimuta, fattore che porta le persone a scrivere con errori di ortografia, tra cui l’utilizzo di lettere – come la “w” – che non appartengono nemmeno al nostro alfabeto.

Il termine guallera tuttavia ha assunto, in Lingua Napoletana, differenti significati ulteriori a quelli che competono il campo della Medicina, tutti intesi in senso figurato. Ne consegue che il napoletano, laddove usasse tale termine, nella grande maggioranza delle volte non intende far riferimento alla patologia cui abbiamo sinteticamente accennato sopra, ma a uno dei vari concetti che ora passiamo a esplicare:

– abbuffà ‘a guallera (o abbuffarse ‘a guallera):  questa espressione vuol dire annoiare, tediare, dare fastidio, recare scocciatura, ed è una maniera, molto colorita e volgare, per intendere che il soggetto o la situazione in questione è giunta a un grado talmente elevato ed insostenibile di insopportabilità da “abbuffare”, ossia gonfiare, la sacca scrotale con le conseguenze già spiegate all’inizio. L’espressione può essere usata in modo attivo (esempi: M’hê abbuffato ‘a guallera, ossia “Mi hai scocciato”, o ancora Tonino c’ha abbuffato ‘a guallera, ossia “Tonino ci ha scocciati”) e riflessivo (esempio: m’aggio abbuffatto ‘a guallera, ossia “Mi sono scocciato”). Una variante è (M’hê fatto) ‘a guallera â pizzaiola, l’ernia alla pizzaiola, che richiama la cottura e l’aumentata pesantezza della stessa;

– ‘a guallera cu ‘e filosce: letteralmente la guallera arricchita con frittate di uova, che indica una persona estremamente lenta e svogliata nello svolgere un’azione, ma anche di poco polso e vile. In tal caso, dunque, la guallera è simbolicamente appesantita da una pesante e flaccida frittata che aggrava la già pesante condizione di essere guallaruso. 

essere na guallera: per i Napoletani vi sono persone le quali possono proprio essere identificate con delle guallere, quando costoro sono di ‘sì gran fastidio da ricordare, appunto, il pesante impiccio che comporta l’avere un’ernia scrotale, che impedisce il normale svolgersi delle azioni. Si tratta di un’espressione molto utilizzata, ad esempio, dagli automobilisti che si trovino ad avere dinanzi a sé un’autovettura lenta con strada libera, facendo allungare inutilmente i tempi di percorrenza. In particolar modo, essi usano dire:

– Ih che guallera!: è un’esclamazione che in Lingua Italiana possiamo rendere con “Che scocciatura!”, usata ogni volta che si vuole esprimere frustrazione dovuta a noia, la quale può scaturire dalle situazioni più diverse ed eterogenee. Può riferirsi sia a una circostanza che a una persona;

– abbuttà ‘a guallera: non capita spesso di sentire così, anzi, al contrario, è davvero raro che qualcuno pronunci questa espressione che vuol dire “provare invidia”. Abbuttà significa, letteralmente, colmare, riempire, gonfiare, perciò anche in questo caso constatiamo che il senso figurato del processo di formazione dell’ernia è rispettato. Il “provare invidia” deriva, a quanto sembra, dal fatto che una persona che assista al successo, o a un accadimento positivo occorso a un altro individuo, provi così tanta invidia da farsi scendere la guallera. Ogni tanto capita di sentire, infatti, da parte di chi è destinatario dell’invidia di qualcuno, le formule Si ‘a mmiria fosse guallera ognuno s”a schiattasse, oppure Si ‘a mmiria fosse guallera ognuno ‘a trascinasse, o ancora Si ‘a mmiria fosse guallera tutte fosseme guallaruse (dove mmiria indica “invidia”). In tutti questi casi si ipotizza il caso in cui l’invidia si manifestasse nelle sembianze di un’ernia scrotale, la quale sarebbe di dimensioni estremamente grosse, proporzionali al sentimento provato.

Ora che siete giunti al termine dell’articolo, potete dire di conoscere qualcosa in più sulla guallera: sperando di non avervela abbuffata con questa non breve lettura, né di averla cucinata per voi alla pizzaiola.

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“Mantené ‘o carro p’‘a scesa”: ecco che significa questa espressione napoletana

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Mantené 'o carro p' 'a scesa

“Mantené ‘o carro p’ ‘a scesa” è un modo di dire che tutti, almeno una volta, hanno sentito o pronunciato. In realtà, non esiste una particolare origine per questo detto, che veniva utilizzato per indicare la fatica che bisognava fare per mantenere un carro su una discesa, stando attenti ai grossi sassi che si potevano incrociare lungo il percorso, per evitare di distruggere tutto o che il carro scivolasse via senza controllo.

Una metafora, un modo di dire che suggerisce di non perdere la calma in caso di difficoltà. Di continuare ad essere cauto, prudente e di arginare il più possibile eventuali problemi. “Mantené ‘o carro p’a ‘a scesa”, che letteralmente significa “Trattenere il carro lungo la discesa”, viene solitamente utilizzato per indicare anche un atteggiamento diplomatico e la bravura nel non lasciare che le cose precipitino.

Mantenere un carretto su di una discesa con tutte le proprie forze è sicuramente faticoso, così come lo è a volte resistere dinanzi ai problemi della vita ed affrontarli con il giusto livello di diplomazia.

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“Se so’ rotte ‘e giarretelle”: perché si dice così e da dove deriva?

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cocci
E’ consueto a Napoli usare l’ espressione dialettica “se so’ rotte ‘e giarretelle”, oppure “Rumpimmo ‘e giarretelle”. Questa locuzione, popolarmente conosciuta, indica la rottura di un’amicizia, di un legame intimo e affettivo. Ma qual è la metafora che lega la rottura relazionale alle giarettelle?

Letteralmente Se so’ rotte ‘e giarretelle significa “si sono infrante le chicchere”, ossia si sono rotte le piccole brocche, quelle normalmente adoperate, un tempo, nelle case napoletane. Giarretella è un sostantivo femminile singolare che deriva da Giarra (con etimo dall’arabo ğarra, passato nello spagnolo e provenzale jarra e nel francese jarre), la quale, solitamente di terracotta o vetro, veniva usata per la conservazione del vino e di altre bevande.

Pertanto, la giarretella indica una piccola brocca, giara o chicchera, che alla stregua della prima era fatta con materiali poveri (vetro, terracotta e simili), ma che, tuttavia, veniva adoperata per altri fini: era solito, infatti, servire in questi recipienti bevande agli amici o ai familiari. E non solo bevande, anche alcuni dolci, come il gelato, venivano messi nelle giarretelle. Con gli amici o i parenti prossimi non vi era la necessità di presentare il servizio buono, come quello di cristallo o l’argenteria, ammesso che si possedessero. Oggetti umili potevano tranquillamente essere adoperati grazie al legame intimo e confidenziale che, nel tempo, si era instaurato.

Da qui l’usanza di usare metaforicamente la rottura della giarretella per indicare la rottura dell’amicizia. L’oggetto in questione è divenuto simbolo del legame. Da sempre, in effetti, la creatività popolare ha elaborato metafore e arrangiamenti linguistici che nascondono reconditi significati, rimandando a cultura, tradizione e modi di fare, peculiari della nostra storia.

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“Tene ‘e rrecchie ‘e pulicano”. Da dove deriva questo detto?

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pellicano

Ci sono persone estremamente curiose, anche se non lo danno a vedere: sono le classiche persone che, durante una discussione, sembrano pensare a tutt’altro o, addirittura, essere in un’altra stanza. Eppure, se interpellate, questa particolare categoria di ascoltatori ripete per filo e per segno quanto detto dagli altri a riprova del fatto di aver ascoltato tutto senza essere notati. Nella lingua napoletana, questi curiosi vengono apostrofati con il detto “tene ‘e rrecchie ‘e pulicano”. La traduzione più immediata e naturale di questa frase sarebbe: “ha le orecchie come un pellicano”.

Perchè, quindi, viene tirato in ballo l’udito di questo uccello marino? In realtà molte tesi remano contro la prima versione di questo detto. Innanzitutto il pellicano è un uccello marino dal particolare becco a forma di “borsa” che non è originario dei nostri mari: quindi, per prima cosa viene da chiedersi perchè i napoletani avrebbero dovuto usare a modello un animale che non conoscevano. E’ vero, però, che siamo sempre stati un popolo di marinai e che, quindi, anche in tempi molto remoti, il pellicano potrebbe essere stato un uccello noto anche in una città lontana come Napoli. La seconda tesi è riferita all’udito dell’animale: come tutti gli uccelli di mare, infatti, il pellicano ha la vista molto sviluppata, ma non l’udito. Certo, come tutti gli uccelli, riesce a sentire i suoi pulcini pigolare anche a centinaia di metri di distanza, ma non è una caratteristica peculiare al punto da far nascere un detto. Il significato di “pulicano” va cercato altrove.

Lo studioso Raffaele Bracale offre una sua analisi approfondita e la sua conclusione, a nostro avviso, è la più appropriata. Il termine “pulicano” sarebbe una derivazione dialettale del termine latino “publicanum” (pubblicano), ovvero i temutissimi esattori delle tasse al tempo dell’Impero Romano. Questa odiosa categoria di persone aveva come unico scopo quello di scoprire beni e ricchezze sottratte al demanio pubblico e pignorarle: una versione primordiale della Guardia di Finanza. Per carpire informazioni, spesso, i pubblicani dovevano origliare conversazioni e spiare cittadini romani con lo stesso atteggiamento disinteressato che viene contestato a un napoletano con le “rrecchie ‘e pulicano”.

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“Ê viécchie lle próre ‘o cupierchio”: da dove deriva questo detto?

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Totò Peppino e la Malafemmena

E’ superfluo affermare che gli uomini siano costantemente soggetti a determinate pulsioni e voglie in presenza di una donna desiderata: è un istinto naturale che ci accompagna dall’avvento dell’adolescenza fino alla fine dei nostri giorni. Quando determinati pensieri arrivano nell’età giovanile il problema non sussiste, eccetto in casi patologici: l’attrazione nei confronti delle donne è la base di fidanzamenti, matrimoni e famiglie. Cosa succede, però, quando non si è più in un’età in cui si è avvenenti e prestanti? Un periodo della vita in cui è quasi impossibile soddisfare determinate voglie?

Difficilmente un anziano riesce a dar sfogo alle pulsioni sessuali e, anche nel caso in cui avesse una compagna, l’organismo non è più capace di adempiere a certe esigenze. E’ per questo che, in molti uomini avanti con gli anni, la voglia insoddisfatta si trasforma in frustrazione e questa, a sua volta, diventa un chiodo fisso. A Napoli viene usata l’espressione “vecchio rattuso” per classificare quegli uomini di una certa età che, ad esempio, scrutano in maniera poco carino donne decisamente più giovani o che, addirittura, si lasciano andare in commenti maliziosi e, spesso, offensivi.

La lingua napoletana, si sa, tende a riassumere con poche e significative parole concetti complessi e, ovviamente, anche per questa infelice situazione sessuale degli anziani esiste un detto: “Ê viécchie lle próre ‘o cupierchio”. La traduzione più comune sarebbe “Ai vecchi prude il sedere”, ma potrebbe non essere del tutto così. Innanzitutto cerchiamo di capire cosa significa davvero. Questo prurito intimo dovrebbe rappresentare la pulsione sessuale insoddisfatta, la voglia costante: il prurito spesso viene usato, a Napoli, per definire un “chiodo fisso”, un pensiero costante ed invadente. Una versione più poetica potrebbe riportare agli antichi Satiri, figure mitologiche nella cultura greca. I Satiri erano esseri col busto e testa di uomini e gambe caprine e spesso erano soliti inseguire ninfe e fanciulle nei boschi per soddisfare bisogni sessuali. Cosa c’entrano queste creature con i nostri vecchietti, oltre che per le voglie? I Satiri disponevano anche di una piccola coda e, quindi, il “prurito al sedere” sarebbe, metaforicamente, una coda caprina che compare ai “vecchi rattusi”.

Tuttavia, abbiamo dato per scontato che il termine “cupierchio” indichi il sedere: nella nostra lingua viene spesso usato con questo significato, ma, in questo caso, potrebbe indicare un’altra zona intima. Precisamente si tratterebbe della parte finale del membro maschile, il glande (volgarmente detto in napoletano “capocchia”). Effettivamente, anatomicamente fa da coperchio al pene e, non solo a Napoli, ma in tutta Italia, il prurito in quella particolare zona è una metafora linguistica che sta ad indicare una notevole voglia sessuale. Certo, il significato, anche in questo caso, rimane invariato e se il “cupierchio pròre” c’è poco da fare.

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La donna nei proverbi napoletani. I più famosi e divertenti

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proverbi

La donna è da sempre la maggiore protagonista delle poesie e canzoni napoletane. Viene decantata come creatura angelica da amare e adorare, ad esempio nella canzone ‘O surdato innammurato, ma anche come demone da evitare a tutti i costi come in Malafemmena.

Anche nei proverbi napoletani emerge questo contrasto: donna bella e dea del focolare domestico ma dalla quale bisogna mettersi in guardia dai pericoli e dalle tentazioni che essa può portare. Di proverbi napoletani che hanno come soggetto le donne ce ne sono migliaia, ma noi qui vogliamo riproporre quelli più famosi e divertenti.

Nu buono marito fa ‘na bona mugliera” (Un buon marito fa buona la moglie):
Il marito e la moglie sono metafore, il senso da cogliere è che dove c’è un buon capo, sia come dirigente che come esempio, non ci puo’ essere altro che dei buoni dipendenti o buoni discepoli.

‘A monaca de Camaldoli: muscio nun le piaceva e tuosto le faceva male(Alla suora dei Camaldoli (zona di Napoli), morbido non gli piaceva e duro gli faceva male):
Colorito proverbio napoletano che è usato per indicare qualcuno di davvero incontentabile, non solo per una donna, ma anche magari per un datore di lavoro.

‘Na femmena e ‘na papera arrevutaino ‘na città(Una donna ed una papera rivoltarono la città):
Un’oca che starnazza e una donna che chiacchiera e litiga portano allo stesso modo uno scompiglio anorme. Un accostamento che è usato in molti detti popolari.

Chi ato nun ave, cu ‘a mugliera se còcca” (Chi altro non ha, con la moglie si corica):
Quando le occasioni scarseggiano, si ritorna alle cose di sempre, quelle che sai che ci sono sempre e che non ti deludono mai. Il proverbio si riferisce in generale e non solo al sesso.

Quanno ‘a moda dice ca è ora vide ‘a femmena cò culo ‘a fora(Quando la moda dice che è ora vedi le ragazze col sedere scoperto):
La moda comanda e il colorito proverbio spiega perfettamente la situazione: dove l’uso diventa di massa, tutto sembra diventare lecito.

A altare scarrupàto nun s’appicciano cannéle (Su un altare vecchio non si accendono candele):
Anche se il detto fa riferimento ad un alatre il vero significato di questo proverbio napoletano é: Alle donne ormai anziane non si fanno moine. Ossia non c’è bisogno di fare per forza complimenti alle donne di età avanzata.

‘A bella figliòla nun manca ‘nnammurato(Alla bella ragazza non manca l’innamorato):
Le belle donne hanno sempre un fidanzato. Il detto è inteso che dove c’è ricchezza, bellezza, convenienza, ci sono sempre persone che girano intorno, come le mosche sul miele.

‘A femmena è comme a campana: si nun ‘o tuculeja nun sona(La donna è come la campana: se non lo scuote non suona):
La donna è come la campana se non si muove il batacchio non suona. Si potrebbe carpire un chiaro significato sessuale, ma non è così. S’intende come sprono per la donna priva di iniziative ed intraprendenza. 

‘A femmena bbona, si tentata resta onesta, nun è stata bona tentata (La donna buona se tentata resta onesta non è stata ben tentata):
Se una bella donna viene tentata e rimane onesta, vuol dire che non è stata tentata abbastanza.

‘A femmena ciarliera è pesta nera” (La donna chiacchierona è da evitare come la peste).

‘A femmena cchiù se nega, e cchiù allumma l’appetito (La donna più si nega e più eccita).

‘A femmena è comm’ ‘o mellòne: ogne ciènte, una” (La donna è come l’anguria: su cento ne esce una buona).

“‘A femmena è comme ‘o tiempo ‘e marzo: mò t’alliscia e mò te lascia (La donna è come il mese di marzo, mentre ti accarezza, ti tradisce).

‘A femmena ne sape una cchiù d’ ‘o riavulo(La donna ne sa una più del diavolo).

Puòzze avè a sciòrta d’ ‘a brutta(La donna brutta trova prima il marito): più che un detto è un’imprecazione.

Quanno ll’ossa se fanno pesante, pure ‘e zzoccole addivèntano sante(Con l’avanzare dell’età anche le “donnine allegre” diventano sante).

Tutt’ ‘e peccate murtale sò ffemmene” (Tutti i peccati mortali sono femmine)
Avarizia, accìdia, gola, invidia, ira, lussuria e superbia, sono i sette peccati mortali, tutti al femminile.

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“Adda venì baffone”… ma perchè? Ecco chi è l’eroe dei napoletani

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baffone

Ci troviamo in un momento buio della nostra economia: la crisi continua a farsi sentire, il lavoro manca e la classe politica non rispecchia gli interessi del popolo. E’ in momenti come questi che i napoletani invocano un eroe, una figura ormai leggendaria entrata a pieno titolo nelle nostre espressioni, un paladino che arrivi per portare armonia e benessere in un mondo caotico… in poche parole “Adda venì baffone“. Lo sentiamo nominare dagli anziani che si lamentano per le pensioni, nelle minacce di chi si lamenta della sua situazione lavorativa, ma sappiamo davvero chi è questo baffone?

Iosif Stalin

Iosif Stalin

Il detto nacque quando Napoli venne occupata dalle truppe naziste, durante la Seconda Guerra Mondiale. In una situazione disperata, privi di qualunque forma di libertà, i napoletani si confortavano ripetendo agli altri ed a se stessi che “sarebbe arrivato baffone”, ovvero il dittatore sovietico Iosif Stalin, famoso per i suoi enormi baffi. Al tempo non si conosceva a pieno la realtà internazionale e la Russia veniva visto come un paese libero che, al pari dell’Inghilterra e degli USA, combatteva Hitler per portare libertà e pace: il popolo ignorava gli orrori del regime sovietico, ignorava che Stalin fosse entrato in guerra per controllare il territorio europeo ed ignorava le conseguenze che avrebbero portato a decenni di guerra fredda. Baffone doveva arrivare e salvare Napoli, punto.

L’illusione continuò anche dopo la guerra, l’URSS era considerata una realtà evoluta dove chiunque poteva trovare lavoro e gli operai comandavano. I napoletani continuarono a dire “adda venì baffone”, anelando ad uno stravolgimento positivo delle loro condizioni sociali ed economiche. Sono passati più di 60 anni dalla morte di Stalin, ma Napoli aspetta ancora l’avvento di un baffone: non è più un personaggio esistente, non è più una realtà, ma una speranza, un desiderio di rivalsa ed una minaccia costante al mondo sbagliato in cui viviamo. Prima o poi, insomma, “adda venì baffone”.

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Mannaggia ‘a marina! Un’imprecazione popolare: ma da dove deriva?

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Quando si prova disappunto per qualche avvenimento oppure dispiacere circa qualcosa che è accaduto nella nostra vita o che comunque richiama il nostro interesse, è comune esclamare: “Mannaggia ‘a marina!”.

Ma da cosa deriva quest’esclamazione? Perché si rievoca la marina?

Iniziamo col sottolineare che la parola mannaggia è una contrazione del napoletano popolare della frase “male nn’aggia”, come dire: ne ricavi male, ne abbia sventura ed è usualmente adoperata per introdurre un’imprecazione generica, che in questo caso ha a che fare con la marina.

La locuzione Mannaggia ‘a marina nacque nel 1860, per bocca di Francesco II di Borbone, il quale imprecò contro la marina del Regno, quando seppe dello sbarco di Garibaldi e dei Mille sulle coste siciliane.

Se è vero da un lato, che la flotta del Regno delle Due Sicilie era il fiore all’occhiello dei Borbone e terza in europa dopo la marina inglese e quella spagnola, è anche vero che Francesco era latentemente adirato con gli uomini di mare del Regno, i quali, questa volta affermarono le colpe di pesante inerzia e inaccettabile slealtà.

Si racconta che a corte, il regnante urlò tale imprecazione appena udita la notizia dello sbarco, imprecando contro la propria marina, orgoglio del Regno e di suo padre Ferdinando II, il quale l’aveva allestita con gran cura.

In effetti la Marina, che già aveva dato segni di scarsa applicazione, fin dallo sbarco a Marsala, non riuscì, in seguito, ad intercettare nessuno dei 21 carichi in partenza da Genova e Livorno, che giungevano a supportare l’esercito garibaldino con armi e rinforzi.

Il resto della storia la conosciamo tutti, se non nello specifico e nei fatti reali, almeno in base alle nozioni dei libri di storia e dei loro racconti. Tuttavia, è sempre bene approfondire le conoscenze che riguardano la nostra terra e la nostra cultura, anziché nutrirci di quelle informazioni impacchettate ad hoc per la divulgazione di massa….Mannaggia ‘a marina!

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“Nun sfruculia’‘a mazzarella ‘e San Giuseppe”: ecco cosa significa davvero

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Bastone di San Giuseppe

San Giuseppe

Secondo la canonica iconografia cristiana e le testimonianza dei Vangeli, San Giuseppe è sempre descritto come un un uomo anziano estremamente buono e gentile, paziente più di ogni altro e sempre gentile ed umile con tutti: del resto serve una buona dose di responsabilità e pazienza per accettare di essere padre adottivo del Figlio di Dio e per essere sposato ad una donna consacrata al Signore. Inoltre, il santo viene spesso raffigurato con una lunga barba ed un bastone di legno, ad indicare la sua età avanzata rispetto alla consorte. In napoletano questo particolare ha generato un detto molto comune, “Nun sfruculia’ ‘a mazzarella ‘e San Giuseppe” (Non infastidire il bastone di San Giuseppe).

Solitamente, viene detto a chi fa di tutto per mettere alla prova la pazienza di un’altra persona, magari insistendo nel parlare di cose scomode o fastidiose per l’interlocutore. Insomma, significa arrivare ad un punto di fastidio che nemmeno il paziente San Giuseppe riuscirebbe a sopportare. Può essere anche inteso come un “andarsela a cercare”, quindi un persistere in un’attività dannosa o pericolosa: ad esempio, continuare a dare fastidio ad un cane in grado di mordere o provocare qualcuno particolarmente incline alla rabbia. Perchè, però, si parla proprio del bastone del santo?

Il detto, in realtà, nasce da un reale avvenimento storico raccontato dall’ormai scomparso studioso napoletano, Ulisse Porta Giurleo. L’erudito trovò un documento negli archivi storici in cui si raccontava che un importante cantante di Napoli, tale cavalier Nicolino Grimaldi, nel 1713, tornò da un viaggio a Londra con un’importantissima reliquia: il vero bastone di San Giuseppe. L’oggetto di culto fu messo in una cappella di casa Grimaldi e tutto il popolo napoletano accorse per venerare l’inestimabile tesoro, persino il Vicerè. Tuttavia, fra una devozione ed una preghiera, i fedeli strappavano di nascosto pezzi e schegge dalla reliquia per poter portarsi a casa un pezzo del santo. Il cavaliere si accorse di questa abitudine ed ordinò al suo maestro di casa, il veneziano Andrea Musaccio, di prendere provvedimenti. Così, a chiunque entrava, l’uomo ripeteva con un accento misto fra veneto e napoletano: “Non sfrocoleate la massarella di San Giuseppe”.

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Da “sciammeria” a “chiavata”: tutti i modi per dire “sesso” a Napoli

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trapanare

Dall’ape che va sul fiore al romantico “fare l’amore” l’uomo ha sempre trovato modi metaforici ed addolciti per nominare l’atto più naturale della sua esistenza: il sesso. In qualunque momento della nostra cultura linguistica la parola “sesso” è sempre stata un tabù, qualcosa da mascherare e camuffare: pagine e pagine di metafore sono state scritte per evitare di pronunciare una parola semplice, solo perchè considerata troppo diretta e volgare. Tuttavia, questo avviene nei libri o quando si è in presenza di estranei, ma nella vita privata la cosa è ben diversa.

Nessuno, parlando con amici di una donna che lo attira, direbbe mai “avrei proprio voglia di far l’amore con lei” e nessuno proporrebbe alla sua fidanzata “vorrei volare sul tuo fiorellino”. Da “scopare” a “fottere” la lingua italiana è piena di parole che definiscono il sesso in un modo sempre più volgare e diretto. La lingua napoletana non è da meno, anzi, i sinonimi di amplesso sono tanto numerosi quanto, spesso, estremamente materiali. “Chiavare”, ad esempio, pur essendo universale, particolarmente usato a Napoli. Il suo significato è, in italiano, “inchiodare” e non serve una gran conoscenza del mondo del bricolage per collegare un chiodo che entra in un muro all’atto sessuale.

Uno dei sinonimi più comuni in napoletano è “pella” o “pelle”, usato ancora molto dai giovani napoletani. Deriva, appunto, dalla pelle ed indica un rapporto sessuale senza anti-concezionali, che anche in italiano viene definito volgarmente “a pelle”, proprio perchè il pene è a contatto diretto con il corpo femminile. Un’altra accezione di “pella” può essere anche quella di un rapporto sessuale senza amore, privo di sentimenti e basato solo sul contatto fisico della pelle. Inoltre, “farsi ‘na pella” per un uomo potrebbe indicare anche una semplice masturbazione.

Altro termine molto comune è “menata” ed è, anche qui, molto facile capirne l’origine. In napoletano “menare” qualcosa o qualcuno significa spingere o spostare. Anche in italiano “spingere” viene usato come sinonimo di “far sesso” e, comunque, rende l’idea di un rapporto non particolarmente delicato. Stesso discorso vale per “squassare” che sia in napoletano che in italiano significa “scuotere con violenza”. Meno facile da capire è perchè il termine “chionzo”, nella nostra lingua, significhi “rapporto orale”. Deriva dal longobardo “klunz” (rozzo o volgare) ed in tutti i dialetti italiani viene attribuito ad una persona tozza di aspetto o stupida. Non si spiega, quindi, perchè in napoletano abbia questo particolare significato.

Particolare è anche “basulella” che, generalmente, implica un rapporto veloce e clandestino. Potrebbe derivare dal fatto che, spesso, queste “sveltine” vengano consumate in strada, magari in piedi: “basulella” significa, infatti, basolo di basalto e, quindi, la superficie sulla quale si svolgono simili amplessi. Simile a “chiavata” è “chiantella”, che in napoletano significa “toppa”. Se una toppa serve, generalmente, a coprire un buco è piuttosto facile capire a quale buco e a quale toppa ci riferiamo in questo contesto. “Fricà”, invece, è l’immediata traduzione dell’italiano “fottere” con gli stessi significati: imbrogliare, far sesso, fregare.

Attualmente è difficile sentirlo ancora, ma un tempo, a Napoli, “andare a farsi una sciammeria” significava “andare a far sesso”. I più attenti alla lingua sapranno che, di base, “sciammeria” significa “vestito elegante”. Quindi cosa lega questo al sesso? Con molta probabilità nacque come uno sfottò fra giovani: se vedevi un tuo amico particolarmente agghindato senza un ragionevole motivo, allora, con molta probabilità, si era preparato per incontrare una donna fino al punto che la “sciammeria” è diventata sinonimo di probabile sesso.

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“Cornuto” e “Scornacchiato”: tutti i modi in cui vengono usate in napoletano

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cornaTutti i napoletani, almeno una volta, hanno usato i termini “cornuto” e “scornacchiato” per offendere qualcuno. Sono parole italiane che, però, nella nostra lingua hanno assunto un’importanza tale da diventare parte della lingua napoletana. Si tratta di quelle particolari offese che, nell’uso comune, sono diventate generiche ed universali al punto di venire adoperate in qualunque circostanza: qualcuno che ci ha sorpassato in maniera poco corretta, qualcuno che ci ha fatto un torto o, semplicemente, non ci sta a genio. Eppure, si tratta di due termini con un significato ben definito.

Di “cornuto” abbiamo già parlato e viene utilizzato per definire un uomo che ha la sfortuna di avere una compagna poco fedele. Molto simile il significato di “scornacchiato”, con soltanto una piccola differenza: parliamo di un “cornuto” consapevole, che è a conoscenza della infedeltà e la sopporta senza battere ciglio. Nonostante quanto sembra, le due parole hanno derivazioni diverse. Mentre “cornuto” deriva dalle corna che metaforicamente incoronano il capo del tradito, “scornacchiato” no: va rapportato, infatti, alla parola “scorno”, ovvero “vergogna“. Il vero significato sarebbe quello di “svergognato”, una persona che non si imbarazza della sua condizione di “cornuto“.

Ovviamente, i due termini si sono allontanati molto dal loro significato principale. “Cornuto” può essere indicativo di una persona molto cattiva o antipatica e le sue corna implicherebbero una somiglianza con il re di tutti i mali, il Diavolo. In ogni caso, quindi, non ha mai una valenza positiva, anzi, possiamo considerarla una delle offese più dispregiative della lingua napoletana. “Scornacchiato“, invece, proprio per la sua origine non è sempre offensivo: capita, ad esempio, di sentirlo dire anche a bambini particolarmente vispi. Lo “scornacchiato“, come persona priva di vergogna, non è quasi mai visto negativamente e il termini si riduce ad un semplice “sfottò”.

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Miettete scuorno! Perché si dice “scuorno” e da dove deriva? Ecco la risposta

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vergogna

“Miettete scuorno!”, “Te vuò mettere scuorno?”, “Che scuorno!”, “Me piglio scuorno” sono solo alcuni dei modi di dire napoletani usati in situazioni spiacevoli in cui è stata commessa un’azione imbarazzante o confusa. Il termine “scuorno” indica la “vergogna”, anche se per i partenopei vi è una differenza sostanziale fra queste due parole. Mentre la vergogna è un sentimento personale che l’individuo può vivere anche in maniera privata senza che i conoscenti ne sappiano nulla, lo “scuorno” deve essere reso noto. La gravità dell’azione è tale che coinvolge più persone puntando l’attenzione sul colpevole.

scuorno

Ma da dove deriva questo termine? L’etimologia sarebbe greca. La parola “scuorno” trarrebbe origine dal vocabolo ellenico αισχύνομαι che vuole dire appunto “vergognarsi”. Per altri invece, come il linguista Raffaele Bracale, “scuorno” deriverebbe dal latino “cornum”. La “s” aggiunta avrebbe un valore privativo quindi il significato sarebbe “senza corno o corna” cioè “scornato”. Per comprendere meglio il legame tra l’avere “scuorno” e l’essere scornati possiamo pensare ai cervi. Quando questi splendidi animali lottano per conquistare il cuore di un esemplare femminile si scontrano utilizzando le proprie corna. Il cervo che per primo viene privato di un’appendice esce sconfitto dallo scontro e si ritira allontanandosi dal territorio. Non avendo più una delle due corna quel cervo sarà identificato da tutti gli altri suoi simili come colui che ha subito una sconfitta perché si è dimostrato il più debole. Così come l’animale senza la propria estremità perde il rispetto dei suoi simili e viene per questo esiliato, così l’uomo che si deve mettere “scuorno” è sottoposto alla gogna pubblica.

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Pare ‘a sporta d”o tarallaro: che significa e perché si dice così? Ecco la risposta

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Taralli napoletani

Uno degli antichi detti più famosi di Napoli è senza dubbio Pare ‘a sporta d”o tarallaro che, tradotto letteralmente, significa “Sembri il cesto del tarallaro”. La cosiddetta “sporta”, infatti, era nient’altro che un cesto di vimini intrecciato, ricolmo di caldissimi taralli nzogna e pepe, che il tarallaro portava in giro per la città poggiato sul capo.

Pare ‘a sporta d”o tarallaro, dunque, è un’espressione verbale che si usa per indicare colui che, per una qualsiasi ragione, sia solito spostarsi continuamente ricordando, in tal modo, gli antichi venditori di taralli che erano soliti girare la città in lungo e largo per smaltire l’intera merce di giornata.

fortunato-o-tarallaro

Tale espressione in verità sembrerebbe avere più significati e così oltre a questa prima interpretazione ne esiste un’altra, meno nota, secondo la quale l’antico detto si presterebbe ad indicare colui che per pura pigrizia consente ad altri di approfittare delle proprie cose o addirittura di sé stesso. Ciò trae origine dall’antica usanza degli occasionali clienti dei tarallari di servirsi autonomamente, rovistando nella cesta del venditore alla ricerca del tarallo più gradito.

Trae spunto da tale detto anche un altro modo di dire “Si te tirassene na sporta ‘e taralle, nun ne cadesse uno nterra“. Tale espressione, sicuramente più cattivella, è usata per alludere alla scarsa fedeltà del partner di colui cui la si rivolge. Il detto, infatti, che si traduce letteralmente con “Se ti tirassero una cesta di taralli non ne cadrebbe uno a terra” fa riferimento alle numerose “corna” del soggetto in questione.

Oggi l’antica figura del tarallaro ambulante non esiste più, ma ciononostante non sono pochi coloro che, svoltando l’angolo di una qualsiasi stradina di Napoli, vorrebbero ancora incrociare il famosissimo Fortunato, uno degli ultimi tarallari napoletani, per acquistare per poche monete un caldissimo e tradizionalissimo tarallo artigianale.

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“Ogne gghiuorno è taluorno”: quando nasce questo triste detto?

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allarme caldo

Spesso la vita di una persona è in una fase statica nella quale nulla varia, nulla migliora ed il malcapitato si trova in un ciclo costante e sempre identico di ripetizione. Un’amaro detto napoletano riassume questa drammatica situazione con “Ogne gghiuorno è taluorno”: che tradotto letteralmente significa “ogni giorno è una continua ripetizione”. Così come la vita, sono tante le cose che possono trasformarsi in un “taluorno“.

L’espressione, a Napoli, viene, ormai, utilizzata per qualunque situazione fastidiosa che si manifesta con una sorta di continuità: ad esempio, le tasse possono essere tranquillamente definite “taluorno“, oppure una situazione lavorativa difficile o dei cantieri sempre aperti che immancabilmente aprono i lavori alle 7 del mattino. Anche le persone possono arrivare a diventare una ripetizione costante e fastidiosa, specialmente quando ci si mettono d’impegno. “Ogne gghiuorno è taluorno” viene utilizzato spessissimo per redarguire qualcuno che fa di tutto per infastidire o che continua imperterrito a parlare di un argomento poco gradito. In questo contesto il detto ha un significato molto simile a “nun sfruculia’ ‘a mazzarella ‘e San Giuseppe”, di cui abbiamo già parlato.

Adesso sappiamo quando viene utilizzato e perchè, ma non cosa significa davvero. Abbiamo detto che “taluorno” implica una ripetizione fastidiosa, ma da dove deriva questa parola? L’origine si radica una tradizione molto antica, risalente alle prime civiltà umane: il funerale. In qualunque epoca ed in qualunque parte del mondo i riti funebri hanno sempre rappresentato un modo per accompagnare il defunto verso l'”aldilà” ed unirsi al dolore dei sui parenti. In molte culture, come in quella Greca ed in quella Romana, durante i funerali alcune donne piangevano e cantavano una litania costante e ripetitiva e questa tradizione che si è tramandata fino a pochi secoli fa anche in Italia. In Puglia questo rito veniva chiamato “lu taluèrno”, diventando poi “taluorno” in Campania.

Il primo utilizzo ufficiale della parola, in senso metaforico, come “ripetizione” lo troviamo ne “Lo Cunto de li Cunti” di Giambattista Basile. Nell’opera troviamo già anche il detto “ogne gghiuorno è taluorno” e, quindi, da supporre che nel XVI sec., periodo in cui scrisse l’autore, il termine era già entrato nell’uso quotidiano dei napoletani.

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“Chillo tene l’arteteca”, che cosa vuol dire? La comicità c’entra poco…

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In questi ultimi anni molti avranno ascoltato per la prima volta il termine “arteteca”, grazie al duo comico che si esibisce ogni settimana nel programma Made in Sud. Eppure è una parola che ha origini antiche, che non ha nulla a che vedere con la comicità o con la coppia unita da un legame sentimentale.

“Arteteca” deriva dal latino arthritis che, a sua volta, proviene da arthron cioè “articolo”, “giuntura”. Questa parola è traducibile con “artritide” o “artrite”, una malattia che provoca un movimento convulso delle membra e che i Latini chiamavano anche, più semplicemente, “Gutta”, cioè “goccia”, poiché credevano che il dolore fosse prodotto da un umore che colava a goccia, appunto, nella cavità delle articolazioni. In alcuni scritti è indicata anche come conseguenza del male ipocondriaco. Con il passare del tempo, però, il termine “arteteca” si è allontanato dal suo significato originario ed è stato adoperato per indicare uno stato di agitazione perenne caratterizzato da un movimento fisico continuo. Non è difficile, infatti, ascoltare a Napoli frasi del genere “Chillo tene l’arteteca”, tipico modo di dire che indica una persona che non si riposa mai poiché sempre in attività.

Fonte: Vincenzo De Ritis, “Vocabolario napoletano lessigrafico e storico”, Vol. 1, Napoli, Stamperia Reale, 1845

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“L’asteco chiove e ‘a fenesta scorre”: cosa significa e come nasce

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finestraI proverbi napoletani o i modi di dire, si sa, sono spesso coloriti e crudi, sarcasticamente arguti e densi di fantasia popolare, che caratterizza le loro metafore. Ma a volte, possono anche essere enigmatici. Non subito comprensibili a prima lettura o a primo orecchio; spesso, bisogna investigare un po’ prima di capire quale significato si nasconde dietro il simbolismo verbale, oppure restare qualche minuto a riflettere.

Può capitare, ad esempio, di ascoltare per bocca di una persona anziana le parole: “L’asteco chiove e ‘a fenesta scorre”. Accompagnate, probabilmente, da un viso rassegnato, lontano dall’essere gioviale.

Letteralmente, questo modo di dire si può tradurre così: “Il tetto perde acqua e dalla finestra entra acqua”. Simbolicamente, si riferisce alla contemporaneità di diverse avversità, come a dire non si tratta di un solo problema, ma ne nascono su tutti i fronti.

Dal tetto piove e dalla finestra pure: i guai sono arrivati tutti assieme.

Di conseguenza, essendo il popolo napoletano superstizioso, vuole anche significare che in quel preciso momento della vita, si è particolarmente soggetti alla ièlla, ossia alla sfortuna.

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‘A ‘mpusumatura: sapete cos’è e che significa? Ecco la risposta

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francesi

Jean Jacques François Taurel, “Entrata delle truppe francesi a Napoli nel giugno 1799”

Napoli ha una storia antichissima. Con il passare dei secoli è stata dominata da numerose casate nobiliari e da popoli lontani e differenti tra di loro. Dai greci ai romani, dagli ostrogoti ai bizantini. Popoli di selvaggi e di intellettuali hanno calpestato le nostre terre. Eppure, forse, le dinastie che hanno influenzato maggiormente gli usi e i costumi napoletani sono state quelle spagnole e francesi. Questi due regni sono entrati nei tessuti più profondi della società modificando il vestiario, le passioni culinarie e i passatempi. Ma forse il campo che hanno maggiormente influenzato è stato quello più intimo e cioè il linguaggio.

Non di rado si ascoltano, passeggiando per i vicoli partenopei, parole che hanno una risonanza estera perché traggono la loro origine proprio da idiomi francesi e spagnoli. Nella lingua normanna affonda le proprie radici una parola, quasi del tutta scomparsa, che deriva dal vocabolo empeser e che ha dato vita alla ‘mpusumatura. Questo termine che vi sembrerà così strano e nuovo, in realtà, indica un’operazione che svolgete quasi quotidianamente all’interno delle vostre case. Nel passato era un’attività che realizzava la cosiddetta stiratrice che solitamente usava un enorme ferro da stiro nel quale vi era carbone ardente.

mpusumatura

Ma che cosa vuole dire ‘mpusumatura? Semplicemente “inamidire”. Attività classiche della stiratrice erano, infatti, stirare camicie, ed inamidare soprattutto colli e polsini. L’aggettivo ‘mpusumato significa essersi indurito dopo essere stato bagnato in una soluzione di acqua ed amido, chiamata ‘o bagno ‘e pósema, prima di essere stirato. Da questi collegamenti si evince come anche nel significato napoletano il termine ‘mpusumatura assomigli molto all’antenato francese, dato che il verbo empeser vuol dire, appunto, inamidare. Se si dice, dunque, che una persona è ‘mpusumata, si vuole significare che il soggetto è estremamente rigido nei modi di essere o di fare, tanto da risultare goffo.

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A ‘gnora e ‘a socra: i nemici numero uno delle coppie napoletane. Come nasce il termine?

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suocera

Non c’è un comico che, almeno una volta nella sua carriera, non abbia fatto una battuta sulla suocera, lo stesso Renato Carosone cantava di una suocera carabiniere che seguiva ovunque la sfortunata coppia in “io, mammeta e tu”. Effettivamente, specialmente a Napoli le mamme dei coniugi hanno un ruolo fondamentale e, spesso, invadente. La terribile “socra” è la mamma di lui che, privata del suo adorato figlio, fa di tutto per svilire la moglie e rendere la sua vita un inferno. Per quanto possa essere esagerata come definizione, c’è da considerare che, effettivamente, le mamme meridionali sono particolarmente protettive nei confronti dei figli maschi: non li vedranno mai adulti, ma sempre come dei bambinoni che hanno bisogno di loro. E’ naturale, quindi, che nascerà sempre un certo astio nei confronti della donna che, da sempre, allontana l’uomo dal nido: la compagna.

La “‘gnora”, la mamma della sposa, invece, ha problematiche diverse. Generalmente, per la ‘gnora, il marito della figlia non è assolutamente all’altezza di stare al fianco di una creatura tanto nobile. Può capitare anche il contrario, cioè che la mamma non veda ancora pronta la figlia di poter gestire una sua famiglia. In entrambi i casi il risultato resta invariato: la ‘gnora decide che è il momento di intervenire nel neonato nucleo familiare con ogni mezzo a sua disposizione. Cucina, porta la spesa, accudisce i nipoti, si intromette nelle discussioni come arbitro “imparziale”…il tutto per poter dire alla figlia: “te l’avevo detto”. Ovviamente, anche questa è un’esagerazione, anzi, capita molto più spesso che i generi si affezionino talmente tanto alle suocere da farsi accudire come farebbero con la madre, spesso, approfittandone.

E qui, veniamo all’etimologia dei due termini napoletani per indicare le suocere. Generalmente, era d’uso che la nuora chiamasse la socra “mammà” in segno di rispetto e, sopratutto, perchè la donna entrava a far parte della famiglia del marito a tutti gli effetti. Il termine socra veniva utilizzato, quindi, indirettamente parlando con altri della suocera. La derivazione è semplice ricollegandosi direttamente al latino classico socrus (suocera).

‘Gnora, invece, nasce dalla stessa usanza del “mammà“. Abbiamo già detto quanto i maschi napoletani siano legati alle loro madri, al punto da non poter in alcun modo affibbiare lo stesso indispensabile titolo alla suocera…la mamma è sempre la mamma e non ci sono imitazioni, insomma. In sostituzione è stato quindi utilizzato il termine “signora” che, nel parlato comune, è diventato la forma ridotta “‘gnora“.

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“‘O cchiù bunariello tene ‘a guallera e pure ‘o scartiello”: cosa significa?

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i Brutos

i Brutos

La lingua napoletana è costellata di detti e sfottò utilissimi a prendere in giro qualcuno senza mai trascendere nell’offesa vera e propria o nella volgarità. Spesso questi detti si basano sull’estremizzare i difetti presi di mira, fino a trasformarli in situazioni comiche ed immagini grottesche. “‘O cchiù bunariello tene ‘a guallera e pure ‘o scartiello” (il migliore ha l’ernia ed anche la gobba) rientra sicuramente in questa tipologia di frasi. Viene usato per definire un gruppo di persone che certamente non si contraddistingue per abilità o per qualche capacità.

Sarà capitato a tutti di giocare una partita a calcetto con una squadra di pigroni, buoni solo a rimanere in porta, ad esempio, oppure di osservare un gruppo di ragazzi fra cui nessuno spiccava particolarmente in bellezza. Ebbene, in questi contesti, l’espressione “”‘O cchiù bunariello tene ‘a guallera e pure ‘o scartiello” è ideale. Qualcuno, più malizioso, potrebbe anche trovarla adeguata a definire la nostra classe politica. In ogni caso, il detto è ironico sin dal principio, con l’uso del termine “bunariello”: in napoletano, questo diminutivo di “buono” non è mai un complimento, ma indica qualcosa di mediocre, passabile, ma non certo eccezionale. Se qualcosa da mangiare, ad esempio, viene definita “bunarella” vuol dire che è a mala pena commestibile.

Sulla guallera e sulla sua fondamentale importanza nella nostra lingua abbiamo già discusso, mentre lo scartiello è la gobba, ma può indicare una qualunque deformità o incapacità: lo “scartellato” non è solo un gobbo, ma anche una persona incapace o poco agile. Entrambi, insomma, indicano l’essere segnati da qualche deformità o essere in pessime condizioni fisiche od estetiche. Tuttavia, non viene usato sempre per prendere in giro qualcuno. Una famosa filastrocca recita: San Dunato, san Dunato: simmo tutte struppiate chillu llà cchiù bunariello tène ‘a guallera e ‘o scartiello”. In questo caso viene fuori l’autoironia napoletana e viene messa in evidenza una situazione sfortunata, o addirittura drammatica, che coinvolge la persona stessa e quelli a lei cari. Non è chiaro perché venga nominato proprio San Donato, protettore degli epilettici, ma probabilmente è per l’assonanza con “struppiate”.

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“…e buonanotte ai suonatori”: da dove deriva questo famosissimo detto?

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Buonanotte ai suonatoriI proverbi e le frasi fatte che usiamo abitualmente si distinguono in due categorie fondamentali: quelli che in poche parole trasmettono concetti complessi e saggezze antiche e quelli che, più semplicemente, vengono usati quasi come intercalare nei discorsi, per colorire frasi o per trasmettere forza a quanto espresso in precedenza. Quante volte, decisi di voler chiudere una conversazione o mettere un punto, abbiamo chiuso la frase con un secco “…e buonanotte ai suonatori”. Questo modo di dire non ha origini prettamente napoletane, anzi, viene riconosciuto in quasi ogni regione d’Italia, ma a Napoli viene usato molto più frequentemente ed è arrivato ad assumere connotati e significati ben più complessi.

Oltre al mettere fine ad una discussione o ad un accordo, “buonanotte ai suonatori” per i napoletani indica spesso una certa forma di rassegnazione, una resa di fronte ad una situazione che non può essere più cambiata nonostante gli sforzi. Ad esempio, per rimanere in tema di sonno, quando un neonato viene svegliato da qualche rumore durante un riposino è difficilissimo che si riaddormenti ed è molto più probabile che decida di lamentarsi per un bel pezzo; in questa circostanza la madre potrebbe dire rassegnata “ormai si è svegliato e buonanotte ai suonatori”. Più semplicemente quando qualcosa si rompe definitivamente possiamo salutarla desolati con un mesto “buonanotte ai suonatori”. In ogni caso, sta sempre ad indicare una chiusura definitiva, la fine di qualcosa, ma da dove deriva? Perchè la buonanotte viene data proprio ad i suonatori?

La spiegazione è semplice, basta pensare ad un qualunque locale dove si può ascoltare musica dal vivo: beviamo, mangiamo, chiacchieriamo, trascorriamo lì la serata e, quando usciamo, le note della band continuano a risuonare nel locale. Un tempo era molto più comune, per i locali, avere orchestre e musicisti fino alla chiusura, anche quando i clienti si contavano sulle dita di una mano. Quando la musica finiva, quando persino i suonatori potevano andare a dormire, significava che la festa o la serata erano definitivamente concluse e che non c’era più alcun motivo per restare fuori: un po’ come avviene nelle più moderne discoteche. Una canzone dei Pooh intitolata, appunto, “Buonanotte ai suonatori” chiarisce bene il senso di questa condizione:

“E tutti a casa, sotto le coperte
qualche canzone c’è rimasta chiusa
dentro al pianoforte, lasciamo qui
gli ultimi pensieri, buonanotte ai sognatori
agli amori nati ieri
buonanotte a chi farà una buonanotte
anche ai lupi solitari
a chi scrive contro i muri
e alla fine… buonanotte ai suonatori”

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